LA FIERA DELLE VANITA’

Qualche anno fa, in occasione di un’ondata particolarmente corposa di trasposizioni cinematografiche di romanzi ottocenteschi inglesi, si disse che in fondo la letteratura del passato, da Shakespeare in poi, forniva ancora le migliori sceneggiature per il cinema. Questo non è del tutto vero, in quanto molto spesso si tratta di opere estremamente complesse a livello narrativo, ma possiamo dire che in questo caso i molti e necessari tagli sono assolutamente condivisibili. Il problema di Vanity Fair, tuttavia, rimane purtroppo lo stesso di tutti quei romanzi in cui la voce narrante è un personaggio a sé, che pur senza nome e identità è perfettamente riconoscibile nell’autore, e che invece viene sistematicamente giustiziato sullo schermo. Senza l’ironia di Jane Austen, per esempio, tutti i suoi meravigliosi personaggi diventano null’altro che caricature a buon mercato, maschere di una sciocca commedia dell’arte (con l’unica parziale eccezione di Ragione e sentimento, grazie alla sceneggiatura di Emma Thompson). La sorte di Thackeray non è purtroppo molto diversa: eliminato il Burattinaio, come egli stesso si definisce nel prologo, i cui velenosi strali costituiscono la spina dorsale di un romanzo pressoché perfetto, le marionette perdono vita e, se qualcosa ne rimane, si trasforma in altro. La protagonista Becky Sharp, decisa a scalare i gradini della società inglese del primo Ottocento con ogni mezzo lecito o illecito (con una preferenza per quest ultimo sistema), parente prossima della Milady di Dumas per la sua capacità di sfruttare spietatamente persone e situazioni ma con humor tutto inglese, servita a Margaret Mitchell come modello (poi edulcorato) di Rossella O’Hara, si trasforma qui quasi in una Buona Samaritana, una Vittima Sociale, l’Orfana del romanzo edificante alla Dickens. Una lancia va comunque spezzata in favore dell’attrice americana Reese Whiterspoon, sin qui protagonista di filmini adolescenziali a buon mercato, che ribalta tutti i pregiudizi rivelandosi del tutto convincente nella parte, e capace di una recitazione sottile e ironica. Grazie all’inevitabile supporto di buona parte del gotha del teatro britannico (uno tra tutti, il grande Jim Broadbent), come peraltro consueto nelle pellicole in costume, il film scorre piacevole, godibile, brillante: un po’ troppo brillante, a dire il vero, quasi abbagliante, nei colori, nella sgargiante scenografia da confezione di cioccolatini di lusso, nelle spezie indiane con cui Mira Nair non riesce a trattenersi dall’insaporire il prodotto. Le Indie Occidentali, come allora si chiamavano, ricorrono effettivamente nei racconti dei personaggi, ma la regista ne approfitta per regalarci superflui e coloratissimi siparietti che servono forse a ricordarci che abbiamo a che fare con l’autrice di Monsoon Wedding (anche la rappresentazione delle sciarade, che qualcuno ricorda anche in Jane Eyre della Brontë, si trasforma in un licenzioso balletto di odalische), laddove l’ascetico Ang Lee si era invece arreso con successo alla piovosa patria di Jane Austen, con i suoi colori freddi, le sue stanze buie, i suoi abiti scuri che, ricordiamolo, imperavano anche nella Fiera delle Vanità. Peccati veniali, si potrà obiettare, che a molti degli spettatori non daranno minimamente fastidio. Eccessi scenografici e violazioni al rigido codice sociale dell’epoca (ma quando mai ci si baciava per strada? Ma quando mai una giovane istitutrice si vestiva di rosso con uno scialle indiano? Suvvia!) dimostrano ancora una volta la paura di non saper rischiare e osare l’inosabile, ovvero un po’ più di sobrietà e di documentazione storica.
[febbraio 2005]
(Vanity Fair) regia: Mira Nair sceneggiatura: Matthew Faulk, Mark Skeet, Julian Fellowes, dal romanzo di William Makepeace Thackeray fotografia: Declan Quinn montaggio: Allyson C. Johnson musica: Michael Danna interpreti: Reese Witherspoon, Eileen Atkins, Jim Broadbent, Gabriel Byrne, Bob Hoskins produzione: Granata Films distribuzione: Eagle Pictures
