La guerra dei fiori rossi

Raccontare l’infanzia. Restituire l’innocenza complessa e la magia dello sguardo del bambino. L’infanzia dei mostri negli sgabuzzini e delle notti di sogno.
Il film, una co-produzione italo-cinese, racconta la storia di un bambino di 4 anni, Qiang. Trascinato dal padre in un asilo, il piccolo diventa presto l’incubo delle maestre e dei compagni, rivelandosi insofferente all’autorità e a comandi di ogni tipo. Nell’asilo Qiang procede alla sua scoperta del reale: le relazioni con l’altro, con gli adulti, con il mondo magico che lo circonda. E soprattutto con l’altro sesso, che lo affascina misteriosamente.
Dopo Diciassette anni, in cui dirigeva delle adolescenti, Zhang Yuan firma un film intenso e seducente sul mondo dell’infanzia, raccontato tutto dagli occhi del bambino protagonista (un azzeccatissimo Dong Bowen). Zhang Yuan – premio Robert Bresson a Venezia 2006 – adotta uno sguardo propriamente infantile, che è tale a tutti i livelli del film: il racconto si districa agilmente tra registri distanti tra loro, descrivendoci la tragedia di un nonnulla (che è tale per noi adulti), come quando Qiang prova a vestirsi, non riuscendoci, davanti ai suoi compagni; o l’improvvisa ilarità, frenetica, per un gioco nella neve, che trasborda in pura gioia. Senza mai schernirsi, senza mai prendere le distanze dal mondo dell’infanzia, Zhang Yuang trasfigura la realtà a servizio del piccolo e dei suoi compagni, ci restituisce i loro sentimenti profondi e l’eco intima della loro incantata conoscenza del mondo. Complici in questo sono la bella musica di Carlo Crivelli, a tratti commovente, subito dopo allegra e spensierata, e una struttura narrativa disordinata, “arruffata”, in cui diversi microracconti si affastellano senza gerarchia; o meglio, in cui l’importanza di un’esperienza e le concatenazioni tra gli eventi sono diverse dalle nostre, come appunto accade nella testa di un bambino.
Lo sguardo del bambino trasforma la realtà: così il fiore rosso (il premio che le maestre danno ai bambini ubbidienti) che diventa per il piccolo Qian un tesoro dal valore inestimabile, da desiderare con tutte le forze. Allo stesso modo si trasforma la maestra agli occhi dei bambini, e diventa un mostro che vuole mangiarli (straordinaria la scena dell’assedio al letto di lei). Ma tale trasformazione sconfina raramente nel surreale: essa resta piuttosto una deformazione del reale. Zhang Yuan costruisce così un sapiente ma discreto gioco di prospettive e inquadrature, appunto lenti deformanti che trasfigurano ciò che vediamo senza intaccare l’amore per il realismo della rappresentazione. Si ravvisa in quest’ultimo una delicatezza traffautiana (Les 400 coups) nel tratteggiare la realtà dell’infanzia e nel raccontare i rapporti con i coetanei e con gli adulti. In questo modo il film non è mai una fuga dalla realtà, e anzi porta avanti una denuncia del sistema educativo cinese e dell’insegnamento in generale. In virtù dello sguardo infantile e realista, lo spettatore è infatti complice di Qian e allo stesso tempo testimone di quella realtà raccontata dalla parte del bambino: può così cogliere la profonda ingiustizia e l’insopportabile peso dell’educazione, un indottrinamento che esalta il conformismo ottuso. In una scena vediamo un plotone di soldati che marciano; i bambini subito li imitano e gli rifanno il saluto, per gioco. Zhang indugia su quello scherno dei bambini, sulla loro irriverenza libera e pestifera, senza mai dimenticare il ben chiaro parallelo tra soldati e bambini (talvolta più simili a carcerati). In questo senso Qian è un ribelle che anela alla libertà. E’ libero quando si alza dal letto mentre tutti dormono e va a giocare in giardino, e prova a scappare dalla sua ombra, da solo ma libero. E’ libero quando, sempre di notte (il regno del possibile, sospeso tra sogno e realtà), esce di nascosto e fa la pipì sulla neve. I bisogni corporei dei bambini percorrono tutto il racconto del film, e appaiono l’unico strumento di espressione e di ribellione al divieto continuo che il mondo degli adulti impone. Diventano i simboli più propri della sincera allergia all’autorità da cui il film è animato. Anche l’umanismo più tenero è sempre accompagnato sotto la superficie da un gioioso afflato anarchico, festosamente libertario.
(Kan shang qu hen mei ); Regia: Zhang Yuang; sceneggiatura: Dai Ning, Zhang Yuang; fotografia: Yang Tao; montaggio: Jacopo Quadri; musica: Carlo Crivelli; interpreti: Dong Bowen (Qing), Ning Yuanyuan (Chen Nanyan), Zhao Rui (Miss Li), Li Xiaofeng (Miss Tang); produzione: Marco Muller, Zhang Yuang; distribuzione: Istituto Luce; origine: Cina, Italia; durata: 92’
