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La masseria delle allodole

Pubblicato il 23 marzo 2007 da Edoardo Zaccagnini


La masseria delle allodole

Se vuoi ritrovare l’impegno e la passione civili nel cinema italiano, ripercorri una strada che parte da lontano, che nasce negli anni ’60 e seguila fino ad oggi. Torna ad autori nati in un altro contesto e traduci le loro opere, non sempre riconducibili al linguaggio del realismo, in una metafora universale. Arriverai a concludere che il cinema italiano più sicuro di sé e più utile, deve ancora fare i conti con ragazzotti da cinema di più di settanta anni. Pluripremiati, unanimemente riconosciuti maestri, ma ancora capaci di mettere in bel cinema e comunicare. Sono giorni, quelli di questa fredda primavera del 2007, in cui ritornano, con relativa sorpresa, gli importanti film di Ermanno Olmi e dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani. Il primo ci regala, con Centochiodi, l’opera che è quasi il suo testamento artistico ed umano e che racchiude tutta la saggezza del vivere e del pensare di un uomo maturo già da tempo, virtuoso ed umile da sempre. I secondi, i famosi fratelli di San Miniato, approfittano della grande Storia, la peggiore, e la prendono di petto. Il loro ultimo film, La masseria delle allodole (presentato al recente Festival del cinema di Berlino), mostra, con una semplificazione linguistica estranea al loro cinema migliore, una strage! L’indagine storica non ha ancora stabilito se sia più esatto definirla genocidio oppure eccidio. Il primo termine significa distruzione metodica di un gruppo nazionale; il secondo, più semplicemente, sterminio. E’ sicuro, tuttavia, che il film costruito dagli autori toscani sia un affresco doloroso di vittime indifese ed innocenti, sbranate da carnefici feroci ed assoluti. Uno sforzo macabro tendente a scacciare il silenzio da una pagina atroce del novecento buio e più in generale a ravvivare l’orrore verso tutti gli eventi aberranti che costellano le dinamiche del secolo scorso, dell’attuale e dei precedenti. I Taviani mettono in scena una tragedia e non ne nascondono gli accenti più truculenti. La violenza che caraterizza tutto il film sfrutta la totale rappresentazione del dolore, dalla fenomenologia della sua origine in poi, per allontanare con più efficacia l’oscuramento della mattanza. La chiara vicenda della minoranza armena, distrutta da quella follia ideologica che conosciamo soprattutto sotto altri nomi e latidutini, può fermarsi a se stessa ed allacciarsi all’orrore che conosciamo, per dovere civile ed attraverso la memoria sbandierata dai nostri anni di “pace”. Narrativamente siamo nel 1915, appena dentro la prima guerra mondiale, tra le colline di un’Anatolia fiorita di gelsomini e profumata di dolci pasquali, insieme a un popolo colorato, mite e fantasticante. Ci prepariamo, con loro e con i loro costumi, ad una festa. Ed invece sta per scendere l’oscurità della morte, della barbarie, della fine atroce e disumana. Il partito dei Giovani Turchi insegue il mito di una grande Turchia estranea ad ogni minoranza: non c’è più spazio per la cultura armena e non ci sarà nessuna festa. Si delineano i personaggi, il nucleo ristretto, spesso familiare, a cui gli autori affidano l’illuminazione del dramma più vasto. La violenza irrompe d’improvviso, senza nessuna interferenza registica gli uomini vengono trucidati. Alla grandezza delle donne viene affidato il seguito del romanzo indigeribile. Saranno loro a portarlo negli occhi ed in gembo per tutto il viaggio. E con loro il film diventerà la retta su cui si allontanano reciprocamente, verso un orizzonte algebrico, il bene ed il male, l’amore ed il dolore. I registi tirano al limite gli opposti, li portano entrambi al massimo dei giri, rinunciando, forse volontariamente, a tutto il resto del linguaggio, adoperando spesso una forma cinematografica minimalista e televisiva, a cui non ci avevano, salvo per le ultime trascurabili prove non solo televisive, abituati. Sta più nei fatti rappresentati, che nella loro rappresentazione, il valore di questo film. Un peso che è soprattutto documentale. Un razzo di segnalazione che evidenzia un capitolo oscurato dalla coscienza storica. Un frammento attualizzabile per un argomento tristemente attuale, riconducibile ad altri in cui ci si uccide dandosi del tu. Ancora veri, ingiusti, ripetuti.


CAST & CREDITS

(La masseria delle allodole); Regia e sceneggiatura Paolo e Vittorio Taviani; fotografia: Giuseppe Lanci; montaggio: Roberto Perpignani, musica: Giuliano Taviani; interpreti: Paz Vega, Alessandro Preziosi, Angela Molina, Arsinee Khanjian, Mariano Rigillo; produzione: Ager 3, in collaborazione con RaiCinema, Eagle Pictures, Nimar Studios (Bulgaria) Icaa (Spagna), France 2 cinema; distribuzione: 01 distribution; origine: Italia, 2007; durata: 117’; webinfo: Sito ufficiale


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