La mia vita è uno zoo

È un ritorno importante e malinconico allo stesso tempo quello di Cameron Crowe, narratore dal respiro classico, ancora capace di raccontare un sogno americano negato invece dai nuovi nomi del cinema statunitense, come il sempre più disincantato Jason Reitman di Tra le nuvole e Young Adult o il Clooney delle Idi di marzo. Di fronte a una cinematografia intenta a esaminarsi con occhio critico e, verrebbe da dire, più europeo, Crowe si può amare per i suoi racconti formativi, da manuale, ad alto tasso emotivo, oppure odiare fondamentalmente per la stessa ragione, ossia la sua ostinazione nel narrare qualcosa a cui non si crede più o che forse non è mai esistito, come i ricordi del David Aames di Vanilla Sky, ricreati artificialmente per una felicità tanto rassicurante quanto illusoria.
Il cinema di Crowe è come quel cielo di vaniglia, dolce e accogliente, riluttante a squarciare il velo di Maya perché convinto che il sogno lucido del grande schermo sia più allettante della realtà. Il remake di Amenábar si scopre così il film più personale e autoriflessivo di Crowe, il punto limite di una filmografia dal quale l’autore sembra ripartire affidandosi con nuovo slancio alla classicità di schemi narrativi consolidati, come il road trip di Elizabethtown o il family drama di quest’ultimo We bought a zoo, tratto dall’omonimo romanzo autobiografico del giornalista Benjamin Mee.
La storia del vedovo Matt Damon, alle prese con una figlia piccola e un adolescente ombroso in un parco zoologico da rimettere in sesto, non fa eccezione. Ci si ritrova tutto l’apparato tematico e stilistico del regista californiano e in particolare del suo film più famoso, tanto che La mia vita è uno zoo sembra avere l’ambizione di diventare per questo nuovo decennio quello che Jerry Maguire fu per gli anni Novanta.
Come il predecessore coglie infatti un’urgenza di rinascita, di rigenerazione, il rifiuto di un’America in crisi e preda di bolle e speculazioni economiche, ma appare forse fuori tempo massimo nella sua velata critica sociale, mentre convince nel ritratto privato di un Damon alle prese con i propri fantasmi, realizzati in un gioco di sguardi con la moglie assente che è spesso struggente nonostante la retorica implicita. Crowe torna al romanzo di formazione di adulti immalinconiti, traccia vite alternative con lo stesso, calcolato candore di un Frank Capra, arrivando, con una certa sfacciataggine, a citare la figura dell’angelo custode: cos’altro sarebbe del resto questa moglie che veglia dall’alto?
Dopo la ricerca di nuove vie, La mia vita è uno zoo diventa il film della restaurazione per Crowe, che sembra rifugiarsi nella solida struttura già alla base del successo di Jerry Maguire: un amore che aspetta paziente (e gli va dato merito di aver restituito finalmente Scarlett Johansson alla sua età e al suo tempo, senza più performance seduttive da pin up), una leggerezza di toni garantita dalla presenza dei bambini e l’apporto emozionale di una partitura musicale che è probabilmente la vera sceneggiatura del suo cinema. Il film si dipana emotivamente come una ballata folk, consumandosi nello stesso scarto che intercorre tra i due brani dei Sigur Rós utilizzati per le sue colonne sonore, dalla minimalista The Nothing Song di Vanilla Sky alla trascinante Hoppípolla, che scandisce qui le tappe del racconto per poi suggellarne il finale.
E allora, tornando a quanto detto all’inizio, questo ritorno di Crowe è al tempo stesso importante, per la sua capacità di “far avanzare i film come treni nella notte”, come diceva Truffaut, di creare inarrestabili marchingegni dove niente è fuori posto e l’emozione non fallisce mai il suo bersaglio; malinconico perché è forse troppo tardi per credere ancora a certe life extensions e l’incantesimo finisce per svanire poco dopo la visione.
All’interno della confezione perfetta c’è sempre però un elemento sporco, inaspettato, che vale la pena cercare: come la rabbia giovanile del John Cusack del film d’esordio Say Anything, che arrivava potente oltre la storia narrata, qui c’è l’imprevedibilità della meravigliosa Elle Fanning, che riesce a rompere gli schemi con un semplice sguardo rivolto altrove o un guizzo incontrollabile. È il moderno nella classicità, l’allucinazione rivelatrice nel corpo criogenizzato del cinema di Crowe, che arriva per risvegliarci alla realtà.
(We Bought a Zoo); Regia: Cameron Crowe; soggetto: dal romanzo di Benjamin Mee; sceneggiatura: Aline Brosh McKenna, Cameron Crowe; fotografia: Rodrigo Prieto; montaggio: Mark Livolsi; musica: Jón Þór Birgisson ; interpreti: Matt Damon, Scarlett Johansson, Elle Fanning, Thomas Haden Church, Colin Ford; produzione: LBI Entertainment, Vinyl Films; distribuzione: 20th Century Fox; origine: Usa, 2011; durata: 124’; webinfo: Sito Ufficiale
