La religiosa

Scritto nel 1758 e già oggetto di una trasposizione cinematografica nel 1966 ad opera di Jacques Rivette, La religiosa di Denis Diderot potrebbe sembrare un testo ormai anacronistico o già consegnato alla memoria cinematografica collettiva nell’interpretazione che fu di Anna Karina. Il film omonimo di Guillaume Nicloux, attore, regista e romanziere, dimostra che il testo del filosofo illuminista è ancora di grande attualità e si presta perfettamente ad essere realizzato per il grande schermo, posto che non si indulga in facili concessioni alla morbosità, cadendo nelle possibili “trappole” del testo. Non è il rischio che corre Nicloux, che costruisce un’opera di grande rigore sia narrativo che formale, affidandosi ad una scenografia pressoché perfetta nella sua rievocazione storica e soprattutto alla recitazione intensa ma calibrata delle attrici e degli attori, a cominciare dalla giovane belga Pauline Etienne, sulle cui spalle grava buona parte della riuscita dell’opera. Confinata quasi esclusivamente all’interno di conventi, con personaggi ingabbiati nelle rigide armature che erano gli abiti delle religiose dell’epoca, il margine espressivo si può considerare estremamente ridotto, spesso affidato soltanto alla fisiognomica dei volti e all’espressività degli sguardi, ma tuttavia si rivela efficacissimo, in quanto esso stesso essenza della costrizione claustrofobica che grava sugli ambienti e sugli interpreti della vicenda. Una vicenda di per sé non rara, al centro anche di episodi famosi della letteratura italiana, non solo nella “sventurata” Gertrude manzoniana, ma anche, per esempio, nella povera suor Crocifissa de I vicerè di De Roberto, ma che da queste si distanzia nella testarda lotta di Suzanne attraverso gli strumenti del diritto ecclesiastico per veder annullati i voti impostile dalla famiglia. Senza facili compiacimenti stilistici ed eccessi narrativi, Nicloux filma con grande eleganza i rituali sempre più coercitivi e violenti che segnano i passaggi della protagonista nei vari conventi di destinazione, da cui emerge la mostruosità della condizione monacale: un mondo chiuso e a se stante, in cui vige un controllo rigido e totale, ottenuto con la più melliflua manipolazione, con la crudeltà o l’eccesso di amore, tutti egualmente distruttivi. Un ambiente in cui non si è al riparo dal mondo (come sarebbe nell’intenzione della famiglia di Suzanne, che non può darle una dote come alle sorelle) ma da questo si anzi è del tutto dimenticati, come una segreta di cui sia stata gettata la chiave, e in cui la legge di Dio o degli uomini viene sostituita dalla follia insita nell’essenza stessa del convento, un gruppo di sepolte vive sottomesse ad assurdi rituali punitivi, che possono trasformarsi in tortura dato che il loro scopo è comunque fiaccare la volontà dell’individuo. Suzanne, incarnazione della ragione illuminista, non si getta nel pozzo, non impazzisce, non si vendica, ma continua a lottare proprio in nome della purezza della sua fede, fino al suo rientro nel mondo. Se nella conclusione del romanzo l’eroina si guadagnava la vita come stiratrice e nel più “politico” film di Rivette approdava in un postribolo parigino, Nicloux rimane fedele fino all’ultimo al suo controllo della materia, lasciando aperto il finale sul futuro di Suzanne, che ha appena perso l’ultima delle sue certezze ma ha davanti a sé ancora tutta la sua vita.
Regia: Guillaume Nicloux: sceneggiatura: Guillaume Nicloux, Jérôme Beaujour, dal romanzo di Denis Diderot; fotografia: Yves Cape; interpreti: Pauline Etienne (Suzanne), Isabelle Huppert (Madre Superiora di St. Eutrope), Louise Bourgoin (Madre Christine), Martina Gedeck (madre di Susanne),Francoise Lebrun (Madame de Moni); produzione: Les Films du Worso; origine: Francia, Germania, Belgio, 2013; durata: 114`.
