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La Rivincita della ’Frittola’

Pubblicato il 23 ottobre 2007 da Salvatore Salviano Miceli


La Rivincita della 'Frittola'

C’è una sicilianeità (passateci il termine) tanto diffusa quanto sottile nell’ultimo film di Ficarra e Picone che esula dai, pur presenti, facili, e narrativamente funzionali, luoghi comuni, radicandosi in un’anima che percorre la storia cinematografica dell’isola sino a ricongiungersi con le (s)venture dei due illustri predecessori Franco e Ciccio. Molte le differenze tra le due coppie a partire da un cinema che non punta più sulla serialità dello script, sul calco di altri film e, soprattutto, dal fatto che Franco e Ciccio conservavano quasi sempre la loro identità sullo schermo, spesso sin dal titolo, mentre il duo Ficarra e Picone interpreta personaggi che, pur fortemente tipizzati, uno più intraprendente (per quanto possibile) e furbo, l’altro più incline a subire, variano di pellicola in pellicola.
Spostando però lo sguardo sui tempi comici, sulla gestualità, sul ritmo che lega ogni scambio di battute, ecco che il paragone si lascia il sacrilego alle spalle e si fa possibile, evocando una forte ed intima appartenenza geografica, culturale e sociale con l’isola più grande del Mediterraneo.
Molto più che in Nati Stanchi, prima fatica cinematografica del duo, in Il 7 e l’8 si respira quella sicilianeità accennata nell’incipt di questa riflessione. Già nei primi ‘cosmici’ minuti di proiezione, il focus che dall’universo conduce all’Europa, poi all’Italia, di qui in Sicilia sino a Palermo, per divenire infine consueta immagine di un piccolo crocevia del centro del capoluogo, pare voglia presagire e suggerire un viaggio all’interno di un costume che, pur seguendo le direttrici della commedia se non addirittura, in certi attimi, del farsesco, congiunge topoi, ormai inflazionalmente abusati, a concreti modi di vivere, di comunicare, di rapportarsi a quella che è la realtà cittadina, certo spogliata della rigida e triste cronaca (ma la battuta finale sulle cliniche private, link, forse non troppo involontario, a quel La mafia è bianca, documentario sulla corruzione sanitaria dell’isola, presentato con fragore e poi seppellito nel dimenticatoio politico e, conseguentemente, sociale della regione, regala sì un sorriso ma più amaro che ironico), e vestita del colore palermitano.
Il buon successo della pellicola (seconda al box office settimanale solo dietro il clamorosamente più costoso 300 di Zach Snyder) lascia intendere che Ficarra e Picone hanno saputo giocare abilmente con le loro origini, rendendo il film un prodotto godibile al di fuori degli stretti confini isolani, ma è solo andando ad analizzare la risposta del pubblico palermitano che ci si rende conto di quanto profondo sia il legame tra la pellicola e la città. 7 le sale che ospitano il film, strade bloccate, spettacoli rigorosamente esauriti e risse da concerto all’entrata. Tutto questo travalica il campanilismo, spingendo più verso una voglia mai sopita di specchiarsi al cinema tralasciando per un attimo pensieri e polemiche, riuscendo nel magico incantesimo di volgere i problemi in grosse, grasse, fragorose risate, quasi più da avanspettacolo che non da cinema. Il pubblico riconosce e si riconosce, non solo nelle situazioni, ma nella smorfia che diviene linguaggio, nel gesto che nasconde ogni esclamazione, nei dialoghi che, cosa che accomuna tutti i popoli meridionali, coinvolgono il tatto e la vista ancora prima che l’udito. Allora ‘il cornuto’ che non rispetta l’incrocio, provocando un incidente, è cornuto ancora prima che la bocca abbia dato libertà al fiato, in una direttrice neurologica che prima provoca le mani e solo dopo, in modo rafforzativo e non esplicativo, il verbo.
E qua e là, sparsi nei 93 minuti di proiezione, uno scorcio dello stadio ed una maglia rosa-nero (ovazione in sala), il cosiddetto ‘palazzo melenzana’ dove abita Daniele, il personaggio interpretato da Valentino Picone, il panino con la ‘frittola’ (forse il cibo più intimamente legato al gusto palermitano) ed il chioschetto di frutta alla Cala.
Questi piccoli frammenti urbani e di costume, legati a quelle che possono essere ricondotte a tipiche peculiarità, riconosciute e riconoscibili, basti pensare alla smodata gelosia di Tommaso (Salvatore Ficarra) nei confronti della madre e della sorella, hanno il merito di inserirsi in un racconto che di tutto questo si serve per tirare fuori la sua compiutezza.
E allora per una volta è permesso ridere anche davanti ai problemi, in faccia alla micro ed alla macro criminalità. Ridere di e per un Presidente della Regione chiuso in uno sgabuzzino (molto meglio che vederlo ‘in coppola’ interpretare con una certa naturalezza, per uno spot quantomeno di dubbio gusto, i panni di un ideale ‘padrino’ pronto a fare occupare l’isola dagli Americani) e compiacersi per una città e per una regione portate sullo schermo, una volta almeno, senza la voglia di prendersi troppo sul serio. ‘A babbìo’ (ndr. Per scherzo) tanto per capirci.


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