LA SECONDA NOTTE DI NOZZE

Carino, ben confezionato, orecchiabile ed occhiabile, se si può dire. Pupi non si smentisce ma neanche si discosta. Si tiene a vista della sua Bologna e si concede una tranquilla e sicura vacanza in Puglia. Si fa accompagnare dall’ultimo figlioccio, il bravo ed obbediente Marcorè, il figlio che ogni mamma vorrebbe avere. Chiede indicazioni a un Albanese, di professione grande attore, che al posto di una risposta gli regala strada assieme. E la trasforma in un ricordo per noi che guardiamo e, credo anche per Pupi, di quelli duraturi. Si muove e muove la faccia, il siciliano cresciuto al Nord, compostamente, personalemente e in-credibilmente bene. Si inserisce nella morbida fotografia e nella dolce colonna sonora come l’elemento che la giustifica e la riempie. Ma, per dovere non solo di cronaca, c’è una donna nel film, di cui dobbiamo parlare. Che si chiama Katia Ricciarelli, che tutti conoscono perché c’entra con Baudo e canta la lirica. Beh, non stiamo a dire se è un’attrice o non lo è ma una cosa è certa, che con Avati, in questo film, ha lavorato bene. Ha costruito, probabilmente con l’aituo del regista e dello staff, un personaggio convincente, sensato, di donna sola, madre dentro la guerra e dentro la vita senza privilegi. Ha dato il viso con disponibilità e cervello, addirittura il corpo e non si pensava che fosse Katia Ricciarelli. Poi c’è il film, che ci racconta di un paese lontano e per questo quasi bello, che la guerra ha reso triste, furbo ed ottimista. Lo aveva già fatto Mazzacurati l’anno scorso, sempre a Venezia, con una favola più triste di cui non si era detto nulla. Forse Pupi ha un altro tocco, più raffinato, una capacità di raccontare più armonica e compatta, un rapporto tra scenari storici epocali e sentimenti minuti e senza tempo, che nelle sue mani diventa di maggior spessore. Forse, o forse quando cala il buio sa sempre chi chiamare per passare la notte. I caratteri della commedia, ad esempio, a cui ricorre in più di un’occasione, quando il dramma sociale ha bisogno di una pausa, di una sterzata verso il mondo del regista. O il canovaccio classico del furbo e dello scemo, in fondo semplici anche questi e placidi, come il cinema di Pupi. Tipi quasi fissi di un dramma zuccherato, saporito di casa di campagna, di cose fatte come una volta, di un cinema di semi-evasione, che tra l’impegno e il ritratto sceglie il secondo, perchè gli è più congeniale. Anche un Sud dove si mangia e un Nord che s’avvelena per mangiare sono un manicheismo da romanzo, un meccanismo che accattiva e piega lo spettatore all’emozione e all’intenerimento da cinema. Bisogna saperlo fare, intendiamoci, perché sennò è un disastro e Pupi ci riesce, e le mani che lo applaudono fragorosamente sono quelle della gente che al cinema ci va per quello, perché si vuole divertire e vuole stare bene. Non male, allora un bel viaggetto tra i colori che la fiction ci ha imposto come quelli di 50 anni fa, e le canzoni del periodo così belle ed esotiche. Se poi tengono pure gli incastri e i sentimenti non esagerano, il successo è assicurato. Piccola considerazione a margine. Faenza, Comencini, Avati. Famiglia, famiglia, famiglia. Il cinema italiano ufficiale parla questa lingua e, con calligrafie e penne diverse, non si muove dalla prosa.
[Settembre 2005]
Regia: Pupi Avati,sceneggiatura: Pupi Avati,fotografia: Pasquale Rachini,montaggio: Amedeo Salfa,musica: Riz Ortolani,interpreti: Antonio Albanese, Katia Ricciarelli, Neri Marcorè,produzione: Antonio Avati,distribuzione: 01 distribuzione
