La strada di Levi
Un film-viaggio che ripercorre oggi l’avventuroso ritorno a Torino di Primo Levi, dopo la liberazione da Auschwitz ad opera dell’Armata Rossa. Il racconto di questo viaggio è la materia de La tregua, del 1963, dove Levi appunto racconta la propria “tregua” individuale dopo l’esperienza del campo, e contemporaneamente l’avvento di quella “tregua” che il mondo visse all’indomani della seconda guerra mondiale, e che durò fino all’inizio della guerra fredda e della divisione del mondo in due blocchi contrapposti.
Per Davide Ferrario e Marco Belpoliti, Ground Zero sancisce la fine di un’altra tregua, quella iniziata con il crollo del muro di Berlino. Ecco quindi la necessità storica di ripartire, seguendo i binari invisibili di Levi, ripartire da Auschwitz, il luogo dell’orrore che è stato trasformato nel museo della memoria. E così ri-attraversare confini, per osservare la trasformazione dei luoghi attuata dal tempo, riflettere sulla loro metamorfosi e su quale storia è passata di lì, cosa è stato conservato, cosa dimenticato.
La fotografia privilegia l’ampiezza dello sguardo, perdendosi talvolta in una profondità infinita. E’ sempre l’orizzonte il suo parametro. Il viaggio di Ferrario e Belpoliti è una riflessione sullo spazio, e su come questo spazio sia storia (“Non conosco geografia che non sia storia…” come dice G. L. Ferretti).
Questo percorso, diviso in stazioni, soste, segni sul terreno, è un tragitto verso il passato e contemporaneamente nel futuro. In queste stazioni sulle orme di Levi si riflette il mosaico del tempo: nel destino della fabbrica di Nowa Huta c’è la rovina dell’industria polacca e lo sfacelo del sogno comunista. Nella morte del cantante Igor Bilozir c’è la problematica dell’identità ucraina e l’emblema delle rivendicazioni etniche che insanguinarono e insanguinano l’Europa. Staryje Doroghi è un non-luogo ignorato dalla storia, immutato nella sua “interminabile indolenza”, come dice Levi. La Bielorussia postcomunista che combatte e rivive il suo passato. Cernobyl. Neonazisti a Monaco.
Un viaggio gioioso ma senza serenità, che pare riecheggiare quello stesso umore del libro di Levi (“Passammo il resto della notte cantando e ballando, raccontandoci a vicenda le avventure passate, e ricordando i compagni perduti: poiché non è dato all’uomo di godere gioie incontaminate.”)
Riguardo la struttura di questo viaggio, però, sembra “tenere meglio” la prima parte del film. Il problema della seconda parte e del finale sta probabilmente nell’assenza di un raccordo forte ed efficace tra la vicenda individuale di Levi e le aperture storiche globali che il film ha intessuto. L’impressione è che concludere il proprio ragionamento focalizzandosi solo su Levi (e sul suo drammatico suicidio) smorzi inevitabilmente l’eco del discorso costruito fino ad allora.
Per il resto, le domande che il documentario pone sono attuali e necessarie. La prospettiva della sua riflessione ci costringe a riflettere sulla natura del nostro tempo; guardare attentamente alla nostra storia recente, specialmente quella europea, e ai veleni e al terrore che l’hanno attraversata.
E allora, cos’è stata questa tregua, questo tempo interstiziale? Solo il tempo incorniciato tra due sgomenti più grandi, gli strappi rumorosi di un tempo già internamente lacerato. Non è stata pace, forse è stato oblio.
(La strada di Levi) Regia: Davide Ferrario; sceneggiatura: Marco Belpoliti, Davide Ferrario; fotografia: Gherardo Gossi, Massimiliano Trevis; montaggio: Claudio Cormio; musica: Daniele Sepe; produzione: Rossofuoco, Rai Cinema; distribuzione: 01 Distribution; origine: Italia, 2005; durata: 92’