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La vie en rose

Pubblicato il 4 maggio 2007 da Fabiana Proietti


La vie en rose

Anche la Francia si lancia nella moda cinematografica del momento: il biopic. E lo fa naturalmente affrontando di petto un mito nazionale, che come pochi altri ha esportato lo spirito francese nel mondo, seconda forse solo alla Tour Eiffel.
Il mito in questione è ovviamente Edith Piaf, l’ugola d’oro di Belleville, dall’esistenza travagliata quanto basta per ricavarne una vicenda cinematograficamente interessante. Come dire che in tempi di scarsa ispirazione – pensiamo alla crisi che attanaglia l’industria hollywoodiana come anche il cinema europeo – la realtà, stranger than fiction, può fornire spunti per racconti molto più attraenti sul grande schermo.
Ma la pratica del biopic è spesso ostica e il rischio è quello di cadere nell’apologia o nella docufiction più blanda. Olivier Dahan, va detto, evita entrambe le trappole: la sua rivisitazione del mito Piaf respinge sia la celebrazione fine a se stessa che la sequela pedissequa dei momenti salienti della vita della cantante.
Tenta di costruire, in verità, un ritratto parallelo, di luci e ombre, della donna privata e dell’artista pubblica, nella misura in cui l’una determina l’altra. Partendo dai due poli opposti della vita – infanzia e vecchiaia (seppur accelerata) – Dahan costruisce il suo racconto con un montaggio alternato che viene a far incontrare l’Edith bambina con la quarantenne distrutta dai dolori e dagli eccessi; in mezzo ci sono la ragazza smarrita, con la sua vita di strada, e la donna di successo, l’artista straordinaria conosciuta in tutto il mondo, per quanto il film propenda per un’ottica sempre privata ma non morbosa.
Una strategia narrativa interessante, sebbene non sempre efficace. Spesso le scene recano l’impressione di tableaux vivants, curati, preziosi, ma mai realmente ispirati.
E’ curioso come il regista, pur avendo scelto il soggetto e firmato la sceneggiatura, non abbia impresso all’opera alcun tocco personale, identificativo. Le lunghe sequenze che formano La vie en rose appaiono infatti autoconclusive, isolate dal resto, come un film a episodi composto a più mani.
Forse per la grandeur di mezzi profusi, così stridenti con il cinema transalpino, forse per l’eccessiva ambizione dell’opera – quella sì evidente dal tono magniloquente del racconto – il film, sicuramente sentito, se non altro per la centralità della cultura popolare francese, di cui le canzoni della Piaf sono esempio emblematico, si svuota di quella passionalità, di quella vitalità che il tema trattato avrebbe richiesto.
Non c’è nulla nel film che corrisponda all’energia, alla fiera disperazione emanata dai testi di Edith Piaf e soprattutto alla regalità e alla forza della sua voce. Non c’è in queste immagini qualcosa che si avvicini alla malinconia e alla vitalità (insieme sì) di brani come Rien de Rien, vero manifesto poetico della cantante.
Perdente nel confronto con la musica e la voce diretta di Edith Piaf, La vie en rose raggiunge i suoi momenti migliori proprio quando si svincola dalla rappresentazione più classica e si scopre cinema, trovando realizzazione nella sola immagine: nel primo concerto dell’artista la cinepresa dimentica i celebri brani parigini – affidando il commento alla musica composta da Dubois – per concentrarsi sugli sguardi ammaliati del pubblico e sulla silhouette della Môme (marmocchia), nel momento in cui si appresta a diventare un’icona internazionale.
Così come, del resto, l’immaginazione vince sullo stretto dato biografico, tanto che il personaggio più toccante e più poetico del film è quello di Titine, la dolce e malinconica prostituta interpretata da Emmanuelle Seigner : ed è un piacere rivederla sullo schermo.
L’anima del film pare dunque soffocata dalle sue stesse alte aspirazioni e dalle pressioni di conseguenza avvertite. La vie en rose soffre di una mancanza di libertà, non tanto nella sperimentazione visiva, quanto piuttosto sul piano del racconto e dei personaggi stessi: come la protagonista, che, schiacciata sotto tanto trucco – non finiremo mai di ribadire quanto la recitazione sia distante dalla decalcomania – pare troppo impegnata ad imitare la Piaf per viverla realmente. Allo stesso modo la narrazione sembra sempre incerta sul modo di procedere, tentando un equilibrio tra autonomia espressiva e rappresentazione mainstream, davvero troppo precario per dare un esito positivo.


CAST & CREDITS

(La môme); Regia, soggetto e sceneggiatura: Olivier Dahan; fotografia: Tetsuo Nagata A.F.C.; montaggio: Richard Marizy; musica: Edouard Dubois; interpreti: Marion Cotillard (Edith Piaf), Sylvie Testud (Momone) Pascal Greggory (Louis Barrier) Emmanuelle Seigner (Titine) Jean-Pierre Martins (Marcel Cerdan); produzione: Alan Goldman; distribuzione: Mikado; origine: Francia, Regno Unito, Repubblica Ceca, 2007; durata: 140’; web info: sito ufficiale


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