La zona

Una Fuga da New York al contrario, verrebbe da dire guardando La zona, in cui le alte mura e il filo spinato che circondano il quartiere non servono ad isolare dei criminali lasciati in balìa di sé stessi, come nel film di Carpenter, ma a proteggere la parte “bene” di una città sudamericana, separandola dalla fame e dalla miseria circostanti. Se lì era l’eroe che con la sua missione doveva ripristinare l’ordine, salvando il Presidente dai “cattivi”, qui sono i cattivi che a causa di un evento fortuito, riescono a penetrare all’interno della zona protetta, instaurando un clima di terrore e turbando la “quiete” dei residenti. Questo plot alla rovescia non conduce però a risultati dissimili: in entrambi i casi ci troviamo di fronte a due universi chiusi, governati dal terrore, che finiscono per inventarsi regole a proprio uso e consumo, senza curarsi della legge che governa gli altri universi. L’impatto farà emergere, in tutta la sua evidenza, il lato oscuro dell’uomo, il male più insensato che può annidarsi in ciascuno di noi. Fin qui il paragone con il capolavoro carpenteriano ci starebbe tutto, se non fosse che Rodrigo Plà, al suo lungometraggio d’esordio, pone troppo l’accento su questioni di ordine sociale. Il regista, messicano d’adozione ma in realtà nato a Montevideo, sembra unicamente domandarsi cosa sia possibile fare in un mondo dove una minoranza di persone è sfacciatamente ricca e una maggioranza disperatamente povera, quando l’inefficienza e la corruzione di chi dovrebbe fare giustizia ci lasciano senza protezione, tentando di lanciare un avvertimento su come l’umanità si stia pericolosamente evolvendo. Intendiamoci, non che i risvolti ideologici non fossero presenti anche nella “fuga” di Iena Pleeskin, ma rimanevano per così dire nel sottotesto del film, senza esaurirne le possibilità di lettura. Qui, invece ad essere enfatizzata è solo la “paranoia” dei residenti, dipinti come personaggi falsi ed ipocriti, che sembrano aspettare e “meritarsi” in fin dei conti un attacco dall’ “esterno”. Si perde in questo modo l’occasione di approfondire il modo in cui le regole morali, le nozioni fondamentali di rispetto e coesistenza, degenerino gradualmente in forme di comportamento primitive e disumanizzate, analizzando l’incapacità di guardare fuori e riconoscere le proprie contraddizioni e i propri fallimenti, piuttosto che enfatizzare
Ma al di là di parallelismi più o meno leciti e degli scoperchiati intenti di denuncia, il film rimane apprezzabile, soprattutto perché costruito attraverso lo sguardo di un ragazzino, Alejandro, che vive nella Zona e che si trova costretto a confrontarsi con un mondo più grande della vita artificiale e confortevole che ha sempre conosciuto. La catena violenta di eventi che si susseguono e il rapporto che instaura con Miguel, il ragazzino accusato ingiustamente di aver ucciso un’anziana signora e su cui si innesta una vera e propria caccia all’uomo, lo costringono a rimettere tutto in discussione. E i momenti topici del film sono proprio quelli in cui i due si conoscono e dialogano nello scantinato di Alejandro, dove Miguel aveva trovato provvisoriamente rifugio. Due mondi che si temono e si odiano a vicenda, per la prima volta, entrano in contatto, e lo fanno attraverso la purezza e l’ingenuità di due adolescenti, che parlano di cose banali, di storie divertenti, (come tutti dovrebbero fare alla loro età), lontano dalle difficili decisioni del consiglio dei “grandi”. Alejandro a differenza dei suoi genitori, non vede il suo coetaneo solo come un animale da braccare ma come un essere umano e così facendo, alla fine, riuscirà a trovare una sua etica personale e riconoscerà in mezzo al caos la propria visione della giustizia.
Un altro spunto di riflessione degno di nota è l’idea del “muro”, che viene visto come il simbolo di una prigionia. Con la scusa di proteggere loro stessi, gli abitanti della Zona, rinunciano al diritto essenziale alla libertà, sacrificata in nome del circuito chiuso che li controlla tutti. Un prezzo da pagare troppo alto per una sicurezza che non può mai essere assoluta. Per quanto grande sia la fortezza, per quanto alte le mura, finchè ci sarà una disuguaglianza fuori controllo, ci sarà sempre qualcuno disposto a scalare quel muro; e la cosa è quanto mai attuale, pensando a tutti i muri “storici” che sono stati abbattuti e a quelli che forse non si abbatteranno mai, come la striscia divisoria tra Israele e Palestina.
Sin dalle prime immagini viene sviluppata una continua dialettica tra il “dentro” e il “fuori” e a questo proposito è utile analizzare la sequenza iniziale. Dall’interno dell’automobile guidata da Alejandro, momento che verrà ripreso nella parte finale, scorgiamo un quartiere tranquillo, sereno, fatto di prati verdi e villini puliti e ben tenuti, “piccole scatole” tutte bianche e tutte uguali, al cui interno supponiamo esserci famiglie rispettabili. Ma un dolly esterno ci rivela ben presto la verità: non è una città, ma un enclave circoscritto, in cui telecamere e squadre di polizia privata scrutano ogni movimento insolito e sospetto. Appena al di là delle mura sulle colline circostanti si affollano discariche e favelas, fango e disperazione. Scenario tipicamente latinoamericano, ma che, viste le baraccopoli e i campi rom che ci sono nelle nostre città, non ci appare in fondo così lontano.
Il film, presentato nell’ambito delle “Giornate degli Autori” all’ultima Mostra di Venezia, in cui ha vinto il “Leone del futuro” come miglior opera prima e il premio della critica al Festival di Toronto, porta sullo schermo il racconto omonimo di Laura Santullo, moglie del regista e qui anche sceneggiatrice, che è una sorta di thriller psico-sociologico in cui la trama a dire la verità, pur affrontando temi attualissimi e rilevanti, non risulta essere tanto originale, (pensiamo a The Village), e soprattutto i personaggi rimangono stereotipati, (seppur con la riserva di Alejandro), con tanto di delinquenti da due soldi che vengono subito puniti, il poliziotto corrotto e quello con il passato oscuro, il padre di famiglia che non sa cosa fare e la terribile folla inferocita che inghiotte con rabbia tutto quello che le capita a tiro.
Ad ogni modo La zona è certamente un’opera intensa, tesissima, resa vibrante dall’ottima interpretazione degli attori (e andrebbe vista in lingua originale), tra cui spicca Carlos Bardem, che ne fa un tutto organico, una polifonia di voci e personaggi, capace indubbiamente di emozionare lo spettatore.
(La zona); Regia: Rodrigo Plà; sceneggiatura: Laura Santullo; fotografia: Emiliano Villanueva; montaggio: Bernat Vilaplana, Nacho Ruiz Capillas, Ana Garcia; musica: Fernando Velazquez; interpreti: Maribel Verdù, Carlos Bardem, Daniel Gimenez Cacho, Daniel Tovar; produzione: Morena Films; distribuzione: Sacher; origine: Spagna/Messico 2007; durata: 95’
