Lebanon

9,85 metri di larghezza, 3,39 metri di lunghezza, 3,01 metri di altezza, 51.723 chilogrammi in assetto da combattimento, 4 membri di equipaggio. Questo era il Centurion, carro armato dell’esercito israeliano durante la guerra del Libano del 1982. Un loculo di metallo, una piccola cella di protezione circondata da 118 millimetri di scafo, abitata da Shmulik, l’artigliere, Assi, il comandante, Hertzl, l’addetto al caricamento dei fucili, e Yigal, l’autista. E’ loro il racconto messo in scena da Samuel Maoz in Lebanon, resoconto soffocante e claustrofobico di una notte di combattimento all’interno del Rinoceronte, il Centurion.
Con i piedi a mollo nella loro stessa immondizia, fra le lattine di birra vuote, i mozziconi di sigaretta, le chiazze di sangue dei compagni feriti Shmulik, Assi, Hertzl e Yigal combattono la loro guerra, protetti e prigionieri di quella maledetta latta. Un mirino come solo specchio per il mondo e semplici, meccanici compiti da eseguire. Caricare, puntare, far fuoco. Le mani che tremano, il sudore scende, il vomito sale e la voglia crescente di scappar via, fuggire, correre fuori da quella bara di metallo, tornare da mamma, a casa. Ma fuori da quei 118 millimetri c’è la guerra, i colpi dei mitragliatori, le bombe, i corpi straziati di nemici e commilitoni, civili e guerriglieri. Le mani che tremano, il sudore scende, il vomito sale. Shmulik, Assi, Hertzl e Yigal sono solo quattro ragazzi spaventati, obbligati ad obbedire agli ordini di un superiore. Non sono pronti ad uccidere, non sono pronti a sacrificarsi dentro ad un loculo di metallo. Tesi, stanchi, estenuati cercano conforto nei ricordi del passato, nella speranza di tornare. Le mani che tremano, il sudore scende, il vomito sale. Finanche i bisogni più elementari son complicati in così poco spazio. Tutto appare difficile, quasi impossibile. L’esterno un miraggio, apparentemente ancor più lontano, ora che l’obiettivo del cannone è incrinato. Un colpo nemico, uno dei tanti. Shmulik l’ha visto negli occhi, lo ha fissato arrivare, quasi entrare diretto nelle sue pupille. Ma le 51 tonnellate hanno retto, solo qualche graffio esteriore ripetono i comandanti, dall’esterno. L’esterno, il miraggio. Le mani che tremano, il sudore scende, il vomito sale. I comandanti, quelli che danno gli ordini. Anche nel Rinoceronte ce ne sarebbe uno, Assi. Ma come si può comandare, come si può esser superiori in un posto così. No, lì dentro si sopravvive insieme, si muore insieme. Nelle bare di metallo dei carri armati, dei sottomarini è così. Anche Assi lo sa, o lo capisce. E intanto la notte scende anche se il sonno non arriva, non può e non deve arrivare. Shmulik, Assi, Hertzl e Yigal devono esser pronti, caricare, puntare, far fuoco o il domani, la casa, la mamma non torneranno più.
Quella raccontata da Samuel Maoz è la guerra. Senza filtri, senza censure, senza cedimenti. C’è più pathos, più emozione, più guerra dentro il piccolo riparo del Rinoceronte che sui campi di battaglia di molti, enfatici, war movie. La sporcizia, il sudore, gli spazi strettissimi del carro armato rendono quasi tangibile l’orrore di una battaglia. E’ soffocante la narrazione di Maoz, chiusa in un piccolissimo loculo senza vie di fuga, bloccata fra le quattro pareti di metallo ed una realtà esterna fatta di morte e sofferenza, di vittime innocenti e militari caduti. Shmulik, Assi, Hertzl e Yigal, sono le maschere di questa disumana messa in scena. I loro volti, su cui Maoz indugia con stretti close up, sono la trasfigurazione delle loro paure, di un senso di morte che incombe sul Rinoceronte, sul film. La guerra non è uno spettacolo, uno show dai brillanti effetti speciali: è paura, solitudine, morte, è l’attesa, dentro una bara di metallo, della propria, possibile, fine.
(Id.); Regia e sceneggiatura: Samuel Maoz; fotografia: Giora Bejach; montaggio: Arik Leibovitch; interpreti: Zohar Shtrauss (Gamil), Michael Moshonov (Yigal), Itay Tiran (Assi), Yoav Donat (Shmulik); produzione:Israeli Film Fund, Paralite; origine: Israele 2009; durata: 92’
