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Leonardo Favio: cronìca de un grande cineasta

Pubblicato il 27 giugno 2006 da Edoardo Zaccagnini


Leonardo Favio: cronìca de un grande cineasta

Se chiedessero a cento personalità del cinema italiano di dare un nome al miglior regista della storia del paese in molti inizierebbero a riflettere, con l’unico vantaggio di poter circoscrivere la ricerca entro la fine del 1979. Questa bizzarra inchiesta è stata realizzata in Argentina e l’uomo che l’ha spuntata si chiama Leonardo Favio: uno che è stato in riformatorio da bambino e che se chiedi in giro per Buonos Aiers o Santa Fe, ti dicono che è un’icona musicale del nazional popolare. Pensi si siano confusi, pensi si tratti di un’omonimia, di una storia simile a quella di Antonioni: il regista e il calciatore, che poi il calciatore si chiama Antognoni, con lo gn. Invece Favio è uno solo, regista, cantante e pure attore. Pesaro lo presenta all’Italia, a quella che ha la fortuna e la voglia di seguirlo, e ce lo mostra attraverso i suoi film, che sono diversi tra loro e bellissimi, laddove l’aggettivo superlativo, spesso poco significante, si adopera a caldo dopo una forte emozione sorretta dalla consapevolezza di una bellezza estetica che non si svincola dall’urgenza narrativa. Favio dunque, per chi non lo conosce o lo conosce appena. Cineasta inclassificabile, per pochi e per molti, chiaro e sperimentale, dentro e fuori dal suo cinema, per se e per gli altri. Nasce a Mendoza, nel 38, per avere infanzia e adolescenza turbolente e farle spegnere dentro lo spazio fertile di Buenos Aires, dentro una radio che lo doma e lo accende. Fa piccole parti in drammi e commedie radiofoniche. Ma dura poco perchè Leopoldo Torre Nilsson (uno dei registi più importanti del cinema argentino moderno) lo nota e lo assume, lanciando inconsapevolmente il corpo feticcio di una nuova generazione di registi. Favio, Leonardo, parte grossa del cinema argentino dei sessanta. Già col viso e col corpo, ma anche qui ancora per poco, o non solamente. La strada che dall’interpretazione lo conduce alla direzione è lunga qualche anno di film importanti e di corti di preparazione che anticipano la meraviglia di Cronìca de un nino solo. Siamo nel ’64 e il film viene considerato tra gli esordi più significativi dell’affascinante e sventurato paese latino. E’ la storia di un ragazzino, Polin, che passa i giorni chiuso in disciplina ferrea dentro un riformatorio di Buenos Aires. Prova a fuggire e ci guadagna in maltrattamenti esagerati e punitivi che nulla producono se non la crudeltà e la tenerezza di un ragazzino in cella d’isolamento. L’ossessione per la fuga fa compiere la stessa e il suo racconto con una costruzione registica lenta e minuziosa, che scoprire nel Bresson di Un condannato a morte ¨¨ fuggito una delle fonti più’ dichiarate dall’autore, offre soddisfazione a quel povero lettore attento che ci aveva pensato. Ovviamente ne guadagna il cinema. Quello di un ragazzino che lascia la barabarie di una prigione per trovarne un’altra di lamiere sotto-proletarie, quel cinema di realtà e cinema, appunto, che si danno la mano per guadagnarici entrambe. Polìn osserva i grandi quasi muto e la violenza del suo mondo che non risparmia nemmeno i suoi coetanei. Sembra più’ grande, sembra un uomo, quasi un eroe americano che si salva da solo e forse può farcela anche a liberarne altri. Macchè, il tranello in cui ti infila Favio porta ad un sociale invalicabile e riduce il piccolo Polìn alla sua carne fragilissima e alla sua bocca chiusa. Rimane il sogno, piccolo e rassegnato, di un cavallo bianco. Rimane fino ad un finale senza speranza in cui un poliziotto di notte sorprende il ragazzino in strada. Lo picchia, lo terrorizza e lo porta via con se, in un vialetto buio che fa paura anche qui a Pesaro, dove tutto funziona e le biciclette passeggiano leggere. Favio ricorda Pasolini, De Sica e per certi versi anche il Truffaut dei quattrocento colpi. Riesce ad articolare le influenze delle nuove correnti europee nelle coordinate di una propria estetica che spezza le barriere tra cultura alta e cultura popolare. Musica con Vivaldi bidonvilles ammucchiate, lascia un volto sgarrato da rughe e smorfie per viaggiare lentamente tra gli alberi e il loro suono. Fedele, però, Favio rimane a personaggi anonimi sommersi sotto una schiacciante miseria sociale. Perchè il suo secondo lungometraggio, che fortuna vederlo in pellicola, racconta si una storia d’amore e conseguenze, ma la organizza, tra il lirico e il neo realistico, tra le lamiere e i muri a calce di baracche ammassate. I protagonisti si chiamano appunto Aniceto e Francisca e prima danno il titolo al film, poi si innamorano l’uno dell’altra. Si vivono la poesia della storia in mezzo al disagio campestre finchè lo sguardo di Aniceto incrocia quello di una donna bella quanto Francisca, e se ne innmamora. Perde la testa e il suo unico mezzo di sostentamento: un gallo da combattimento che è costretto a vendere ai vicini. Muore per poco, finisce per terra mentre la macchina da presa lo abbandona per raggiungere, in cielo, il primo satellite sparato dall’Argentina. Ecco i primi approcci con Favio, quello che se ne è andato in Messico e in Colombia, a cantare, quando il golpe militare soppiantò il governo di Isabel Peròn. Il suo cinema non sta solo in questi due splendidi lavori. Si sviluppa, con modifiche strutturali, anche nel decennio successivo. La cittadina ride della sua placida bellezza, si vanta ed impettisce al pensiero di ospitare il cinema lontano di un cineasta universargentino: Leonardo Favio, uno che è stato in riformatorio da bambino, e che ha fatto il cantante.


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