LES AMANTES REGULIERS
Les amantes Reguliers è arrivato a Venezia forte di un rapporto con i dreamers di Bertolucci che i corridoi dell’agosto critico non avevano mancato di sottolineare. Puntualmente, come è giusto, e non senza un sospiro polemico e liberatorio. Si era notata una certa soddisfazione nel pre-saluto allo sguardo di Garrel, considerato più sincero e illuminante rispetto a quello egocentrico e personalissimo del vecchio Bernardo. Poi uno spettatore avrebbe anche potuto decidere di non pensarci e di ricondurre i ventenni arrabbiati di Garrel esclusivamente al suo ideatore: annullare, con gli appartamenti e gli sfarzi cinematografici tanto cari al cineasta parmigiano, tutto il peso di un paragone, a priori inutile, per concentrarsi esclusivamente sulle frasi, i volti, il colore e le avventure politico-affettive di una nuova pellicola francese. Con la speranza di sentirsi raccontato qualcosa in più su questo sessantotto, su questo maggio francese e verificare, magari, quanto oggi sia utile o importante parlarne ancora e meglio. Pesa un fatto, tuttavia, e alla lunga non soltanto uno. Che nel bel mezzo dello scorrimento una fanciulla, la più bella e centrale del gruppo, si rivolga al suo interlocutore del momento chiedendogli se avesse mai sentito parlare di un film intitolato Prima della rivoluzione. Alla risposta di questo (negativa), la sconsolata giovinetta volge uno sguardo (improvvisamente sensuale) alla macchina da presa e pronuncia, sedotta, due parole inequivocabili: Bernardo prima, e Bertolucci poi. La mente dello spettatore torna necessariamente a quel Prima della rivoluzione: innovativo nella costruzione, poco compreso e tra i più sinceri dei film bertolucciani. Si respirava, là, tutta una difficoltà psichica (naturalmente personale) ad abbandonare la culla borghese dell’infanzia, nonostante la spinta intellettuale verso gli ideali, il nuovo e il sogno caratteristici di quel periodo storico. Fatto ciò si torna a questo film, Les amantes reguliers e si accetta, ora con più facilità, di relazionarlo con l’ultima fatica bertolucciana, accolta (qui a Venezia, due anni fa) con favore, se interpretata come un film sui sentimenti e sulla loro forza incontrastabile; con scetticismo se legata ad un discorso informativo sulla storia di Francia e d’occidente. Il sessantotto apriva e chiudeva quel film con un frastuono riduttivo, e poi si limitava ad urlare da fuori alla finestra tutta la sua rabbia, forse anche quella di non potere essere in quell’eden di metri quadrati a scoprire corpo, anima e reciprocità. Qui il sessantotto è sicuramente più massiccio ma è sempre lo stesso: quello dei sassi e dei fuochi, delle cariche e delle fughe salva-ossa nei portoni. Per giunta s’assopisce, col passare lento dei minuti in bianco e nero, sotto le universali ed eterne forze che si stabiliscono tra uomini e donne (o tra donne e donne e uomini e uomini, come i festival di cinema non mancano mai di ricordare). L’amore lava le ferite di una sconfitta politica poco argomentata e nutre le anime complesse (questo il film lo racconta abbastanza bene) dei giovani bellissimi e un po’ meno belli degli inarrivabili dreamers. L’amore nutre ed ammala di una malattia raccontata da sempre che diventa il film di cui stiamo parlando e su cui sarà necessario ritornare perché (e non solo) in odore di Leone. Ma forse tutto il senso di morte che soggiace allo sviluppo dei giovani raccontai da Garrel sta nella delusione di una sconfitta collettiva, nel fallimento di un sogno necessario e spezzato. In questo rapporto di causa ed effetto, di sogno e morte sta il nucleo centrale di questa pellicola di stroardinario colore ed efficace poesia.
[Settembre 2005]
Regia: Philippe Garrell, sceneggiatura: Philippe Garrell, Marc Cholodenko, Arlette Langman, fotografia: William Lubtchansky, montaggio: Mathilde Muyard, musica: Jean-Claude Vannier, interpreti: Louis Garrell, Clotilde Hesme, Julien Lucas, Francois Toumarkine,produzione: Maia Films