Locarno 2009 - Tiburtino terzo/La notte quando è morto Pasolini.

Con una doppietta molto interessante di lavori brevi, Roberta Torre torna a Locarno dopo Mare nero. Un film non impeccabile - teniamoci abbottonati - con un Luigi Lo Cascio non troppo convincente - teniamoci buoni - nei panni di un poliziotto tormentato; ci sale il ricordo della visione e non è piacevole. Vabè, roba dell’altro ieri, da archiviare dietro film della regista ben piu’ risolti e godibili. Su tutti, probabilmente, il piu’ classico della sua carriera, quell’Angela molto e ben siciliano, con una Donatella Finocchiaro scoperta allora dal cinema e mai piu’ rivista cosi’, neanche nel gangster/melò recente di Edoardo Winspeare, Galantuomini. L’oggi torriano parla di due documentari particolari costruiti con un lavoro lungo di preparazione, che si intuisce bene davanti alla visione di questo doppio progetto legato a un tema di fondo. Tiburtino terzo, e La notte quando è morto Pasolini, un’ora scarsa di racconto in tutto, il risultato finale di un lavoro che doveva essere teatrale, e che è durato per un tempo lungo, piu’ di un anno. Ecco i due titoli che completano il piu’ grande schieramento italiano in questo 62esimo Festival del film di Locarno: la sezione Ici & Ailleurs. Due lavori di circa mezz’ora l’uno, dunque, separati eppure uniti da un filo conduttore importante, quello legato alla figura del grande poeta, scrittore e regista di Casarsa, Pier Paolo Pasolini. Nel primo lavoro la Torre torna oggi su quelli che Pasolini aveva definito "Ragazzi di vita", e cerca di capire cosa sia rimasto di quel modo drammatico di essere e di vivere la vita. Di quell’universo esistenziale e soprattutto culturale che tanto aveva riempito i pensieri dell’autore di Accattone, Mamma Roma e Una vita violenta. Analogie e differenze si mescolano nel corto doc. di Roberta Torre, tra quei giovani perduti dalla nascita di allora, e quelli che oggi, con un esibizionismo tragico e poco cosciente si confessano, in qualche modo, davanti alla telecamera fermissima e prodiga di domande della regista siciliana. Oggi c’è la tv in ogni angolo della nostra vita e nell’angolo di ogni tipo di casa o abitazione umana. E c’è la cocaina a portata di mano per tutti i giovani, del centro e delle periferie, che hanno maturato, tutti, una predisposizione culturale all’esibizione e alla messa in scena del proprio sé, che era totalmente assente negli anni della riflessione pasoliniana. Eppure il frammento di autobiografia, che i ragazzi seguiti dalla Torre ci donano, rimane ugualmente drammatico e insostenibile, ai nostri occhi che hanno la presunzione di ritenersi piu’ fortunati di quelli superespressivi dei protagonisti. La mostra di un modo tale di spendere la vita fa ancora tenerezza e dolore insieme, mostra ancora intatta una malattia sociale e culturale capace di colpire interi quartieri, non più borgate in senso stretto ma agglomerati di cemento, che comunque fanno sviluppare un atteggiamento fisico e mentale molto simile a quello descritto da Pasolini.
Le distanze tra i due mondi si sono accorciate, perchè il Tiburtino terzo è sicuramente pieno di giovani laureati, di gente per bene che conduce una vita diversa da quella fermata da Roberta Torre. Eppure, se il racconto della regista è vero, e vogliamo crederlo perchè stimiamo l’autrice, Il tiburtino terzo, come altri quartieri ultra popolari di altre città italiane, è ancora capace di produrre questo fenomeno. Di piu’, è responsabile primo di questo risultato. Ed è un male perchè il racconto di queste vite, mentre ci fa sorridere per la pittoresca vitalità che spinge dall’interno le persone del film, fa pensare con immediatezza alla disgrazia che si è edificata intorno a quelle stesse vite, che le ha aggredite ed irrimediabilmente compromesse. C’è ancora il fascino di una violenza brada e disperata di fronte a quei corpi giovani, belli e sbilenchi, il gusto che da’ la visione protetta di quella vita senza paracadute, incosciente fino alla sbruffoneria, ad un coraggio esibito accanto ad una rassegnazione accettata. E allora quel mondo che Pasolini cerco’ di fermare prima che scomparisse, non è scomparso per niente, ma si è evoluto in una forma neanche poi cosi’ diversa, e piena di identici contenuti. Si ride molto, con i sei sette soggetti che la Torre avvicina, ammorbidisce, coinvolge senza che questi ne capiscano bene fino in fondo il perché. E con quelli di Pasolini si rideva meno, ma questa c’entra col modo di raccontare e non col soggetto trattato. Negli ultimi istanti del film la regista chiede agli intervistati cosa sappiano, cosa ricordano di Pasolini. Qualcuno niente, qualcun altro qualcosa, espresso con parole che sembrano uscite da un testo teatrale comico. Poi c’è un attimo di nero, il silenzio, finché compare un ormai anziano Pino Pelosi. Sarà un intervista frontale di mezz’ora, in cui l’uomo racconterà una nuova versione dei fatti, con quel che gli rimane della sua vita e del suo passato torbido e desolante. Non è la novità che Pelosi porta, ciò che è importante è il fatto che ancora oggi, dietro la morte di Pier Paolo Pasolini ci sia mistero, confusione, inaccettabile buio. Il personaggio aleggia, pesa, senza che mai venga posto in netto primo piano. E’ un’altra operazione, quella di Roberta Torre, che omaggia la figura pasoliniana, ne conferma la bellezza e la forza, l’importanza e il dolore sordo che ancora la sua assenza sprigiona.
Regia: Roberta Torre; Sceneggiatura: Adriano Marcori; Montaggio: Roberto Missiroli; Produzione: Rosetta Film; Accademia Perduta Romagna; Formato: Digi beta 2009
