Locke
Non c’è uomo che prima o poi non sia chiamato a confrontarsi con la propria figura paterna, così da scoprire i tratti assimilabili, i pregi e i difetti ereditati, capire quanto "la mela sia effettivamente caduta più o meno distante dall’albero".
Il viaggio di Ivan Locke è verso l’assunzione delle proprie responsabilità. Una volontà, questa, talmente decisa e ferrea da travolgere con le sue conseguenze qualsiasi certezza, ogni traguardo fino a li costruito, difesa con una tenacia tale da nascondere inutilmente l’esigenza di distanziarsi dall’ombra di un padre che improvvisamente Ivan, con sdegno e paura, scopre più vicino e simile di quanto non avesse mai temuto.
Si procede fuori di metafora nel film di Steven Knight, perché è proprio il viaggio a costituire i novanta minuti scarsi di proiezione. C’è spazio sullo schermo solo per la macchina, il volto e le parole di Tom Hardy, semplicemente perfetto in una prova molto impegnativa. Prova che meriterebbe di non essere sconvolta dal doppiaggio, considerando il profondo lavoro fatto sulla voce e sull’accento, e tenendo in considerazione gli ultimi infelici esempi.
La mdp. non si stacca quasi mai dai primi piani del suo protagonista. Ne esplora dettagli, comportamenti, gesti anche impercettibili che però svelano il personaggio, contribuiscono a definirlo e a raccontarci i modi e i perché della sua reazione. Da quando la BMW accende il motore Hardy resta perennemente sullo schermo. La strada è intorno a lui, scura, sfocata in alcuni attimi, trafficata. Eppure tra tutte quelle luci, Locke è comunque immobile nella sua solitudine.
Knight compie un passo decisamente in avanti dopo l’esordio non indimenticabile di Hummingbird. Le difficoltà che si celano in un progetto del genere sono evidenti. Il rischio di banalizzare la narrazione è forse la principale. Knight, al contrario, qui anche autore della sceneggiatura (stesso ruolo tenuto in Eastern Promises di David Cronenberg), misura ogni singola parola, tanto del suo protagonista quanto delle voci che lo accompagnano nel suo viaggio.
Ogni personaggio, che ci è dato conoscere solo tramite il telefono, delimita i contorni di Locke, ci racconta della sua feroce dedizione al lavoro e alla famiglia, del suo vivere seguendo proprio quel principio di responsabilità che adesso, quasi per uno scherzo del destino, sta per fare ripiegare la sua vita su se stessa. Lui che i grattacieli li costruisce fino in cielo adesso scopre che le sue fondamenta si stanno avviando al cedimento.
La differenza tra mai e una volta sola è la differenza tra il bene e il male. E Knight sembra proprio dirci che anche un solo errore, una parentesi di due ore in cui sospendere l’abnegazione verso i propri doveri, può costare tanto, troppo. Non c’è una soluzione nel film, se non la definitiva consapevolezza di dovere ricominciare tutto daccapo, di dovere riacquistare quella credibilità in grado di lasciare allontanare per sempre l’ombra paterna, per potere dire senza dubbio alcuno che la mela è caduta davvero lontano dall’albero.
(Locke); Regia e sceneggiatura: Steve Knight; fotografia: Haris Zambarloukos; montaggio: Justine Wright ; scenografia: Marco Dentici; interpreti: Tom Hardy (Locke), Ruth Wilson, Olivia Colman, Andrew Scott, Tom Holland, Bill Milner; produzione: Shoebox Films; origine: USA, 2013; durata: 85’;