Lola - Venezia 66 - Concorso

Secondo film a sorpresa del concorso di Venezia 66. Se Muller e i suoi selezionatori ci avevano già spiazzato e soddisfatto con la scelta di un altro film di Herzog, la soddisfazione ora si è raddoppiata. Si vociferava che si trattasse di un film di Samira Makhmalbaf, poi di Kiarostami. Ma alla fine è stata l’ultima opera di Brillante Mendoza ad approdare al Lido. Una scelta che già sulla carta ci ha reso felici e che dopo la visione del film ci ha soddisfatto ancor di più.
Lola restituisce al pubblico il vero cinema di Mendoza. Macchina a mano, movimenti ruvidi, sporchi, lunghi piani sequenza, primi piani epifanici, stasi della narrazione. La sua poetica è ormai indistinguibile. Al centro del racconto, come sempre, le Filippine, con la loro povertà, con i loro paesaggi unici, il loro clima piovoso. In quest’ambientazione si muovono i personaggi, pedinati costantemente dall’obiettivo. Lo stile appare documentaristico, la verità che insegue Mendoza sfonda lo schermo ed arriva diretta all’occhio dello spettatore.
Il film racconta due vite che si sfiorano e poi finalmente si incontrano: quelle di due nonne i cui nipoti sono stati coinvolti in un omicidio, uno come vittima, l’altro come assassino. La loro sfida a distanza è l’espediente per mettere in scena la forza dell’amore materno, l’istinto incontrollabile e naturale di salvaguardare e proteggere la propria famiglia. Ma non solo. Mendoza costruisce una partita di emozioni, di dolore; un gioco di ruoli in cui alla fine non vincono i sentimenti né la giustizia: a vincere saranno infatti le necessità economiche, la povertà, l’arretratezza della società filippina.
Non si parla di bene e di male in Lola; a sorreggere la narrazione non è una dialettica manichea tra giustizia ed ingiustizia. Il tema principale è la sopravvivenza. Per tutto il film vediamo infatti le due anziane alla ricerca di soldi, la nonna della vittima per organizzare il funerale del nipote, quella dell’assassino per convincere l’altra a ritirare la denuncia. In questo modo la pellicola ritrae i veri problemi del paese e regala un ritratto non di certo esaltante delle Filippine. In ogni caso, Mendoza non propone nessuna critica, ma lascia che sia la stessa realtà a commentarsi da sola. La mano del regista si sente esclusivamente nella costruzione della storia e di ogni inquadratura. Se il film ci ha commosso ed emozionato, nonostante un ritmo lentissimo dovuto alla coincidenza tra tempo della durata e tempo del racconto, è grazie alla poesia che si dipana in ogni sequenza. Su tutte, quella della veglia funebre rimarrà impressa a lungo nella memoria: la macchina da presa scivola sull’acqua riprendendo decine di barche che seguono la bara del giovane assassinato; poche note commentano con leggerezza le immagini; vediamo il gruppo di imbarcazioni allontanarsi lentamente tra le povere abitazioni della città. Attraverso questa sequenza, Mendoza cristallizza sullo schermo l’anima di una cultura, lo spirito di una società e di una nazione. Ed arriva a toccare direttamente il cuore, così come l’intero film.
Messa da parte la violenza estrema di Kinatay, presentato all’ultimo Festival di Cannes, il regista filippino recupera le tonalità delicate (anche se pregne di crudezza) di alcune sue opere precedenti (vedi Manoro), e punta dritto ad entrare nella lista dei premiati di Venezia 66. Caro Muller, grazie per questa bella sorpresa.
(Lola) Regia: Brillante Mendoza; sceneggiatura: Linda Casimiro; musica: Teresa Barrozo; interpreti: ; produzione: Centerstage Productions; origine: Filippine; durata: 110’.
