MANDERLAY

Secondo capitolo della trilogia “USA - Land of opportunities”, Manderlay è un film che genera molti dubbi a proposito dell’eterno contrasto tra coerenza stilistica e ripetitività. Di Dogville mantiene le scarne scenografie prettamente teatrali, i personaggi di Grace e di suo padre, l’antiamericanismo di fondo. Ma ad una lettura più approfondita si possono sicuramente delineare alcune differenze. A parte l’inversione dei colori tra pavimento e sfondo della scenografia, e l’ispirazione non più brechtiana ma ripresa stavolta dalla prefazione di Histoire d’O di Pauline Réage, intitolata Happiness in slavery e redatta da Jean Paulhan, la divergenza più lampante col primo capitolo della trilogia riguarda Grace: avevamo lasciato una donna-Dio (o figlia di Dio, dipende dalle interpretazioni) che si era vendicata non contro delle persone, ma contro un sistema, quello occidentale, carico di violenza repressa travestita da sconcertante buonismo. Ma dopo pochi minuti di Manderlay ci accorgiamo che quello Grace è ridiventato un personaggio mite, ma non umile e remissivo come un Cristo (come la vecchia Grace quindi), ma buonista, tanto da far apparire la donna in modo grottesco, come una sorta di paladina delle cause perse. A Manderlay esiste ancora la schiavitù malgrado sia stata abolita settant’anni prima della vicenda narrata (siamo attorno al 1933), e la donna, capitata per caso davanti ai cancelli sbarrati della piantagione-città, si impone affinché gli schiavi di colore cerchino di comprendere il significato delle parole ‘democrazia’, ‘giustizia’ e ‘libertà’. Il tema del razzismo è affrontato con superficialità, e i discorsi di Grace rendono alcune sequenze non ironiche, come forse pretenderebbero essere, ma buoniste appunto, tanto da indebolire la prima parte del film. La responsabilità ovviamente ricade tutta su Von Trier, di certo non sull’eccezionale Bryce Dallas Howard (The village), che non fa rimpiangere Nicole Kidman, ma che anzi dà un tocco di freschezza allo zoppicante incipit. Il personaggio interpretato da Willem Dafoe, sicuramente poco credibile come padre di Grace, è l’unico che rende effettivamente grottesca la situazione, e in questo caso lo stesso regista, in fase di sceneggiatura, ha costruito sapientemente la figura del ‘boss’ con un’ironia che non vedevamo nei suoi film dai tempi di The Kingdom. Le intuizioni interessanti sono, paradossalmente, quelle che non vengono spiegate in maniera pedante allo spettatore, ma piuttosto quelle manifestate in maniera più discreta: la scena in cui Grace insegna il significato della democrazia e l’importanza che risiede nel sistema della votazione agli ex schiavi seduti ad un tavolo, intorno al quale alcuni gangster armati controllano che tutto si svolga per il verso giusto, è un ottima metafora della politica estera statunitense. Ma a parte alcune buone trovate, il Lars Von Trier più ‘politico’ della prima parte di Manderlay non riesce a convincere, e la critica ad un’America razzista e bigotta è lontana anni luce dalla sua prima trilogia ’politica’ sull’Europa (L’elemento del crimine, Epidemic ed Europa), che, seppure confusionaria, era di certo più raffinata e meno retorica. La tempesta di sabbia che distrugge la piantagione di cotone di Manderlay, segna l’inizio di una parte del film indubbiamente più convincente, che mostra come il regista danese si sia ispirato in modo maggiore alla sua produzione degli anni ’90, facendo leva sulla sua tipica abilità nel saper colpire allo stomaco lo spettatore con una spietata descrizione del dolore e della sofferenza, e sul suo bizzarro concetto di poesia, forse un po’ ruffiana, ma sicuramente efficace. Von Trier riesce a rendere più esplicito il messaggio nella seconda metà dell’opera proprio perché, paradossalmente, con il suo misticismo confusionario, riesce a costruire delle situazioni che non si limitano solo a mostrare il suo pensiero antiamericanista, e neanche una semplice critica al mondo occidentale, ma piuttosto un riflessione più estesa sull’uomo e sulla sua incapacità di saper usufruire della propria libertà. Tutto si svolge in funzione di questa drammatica condizione umana: ottenuta la libertà gli abitanti di Manderlay non sanno come sfruttarla e, una volta compreso il concetto di ‘democrazia’, sanno solo esercitarlo per il verso sbagliato (ciò è ravvisabile soprattutto nella struggente scena della donna anziana che aspetta sul letto il verdetto degli altri abitanti della cittadina). Grace nel finale diventa un incantevole angelo che mette in pratica la ‘giustizia’ del popolo e quella di un Dio indefinito e indefinibile (ma comunque stile Vecchio Testamento); gli uomini torneranno a scegliere di essere schiavi e di continuare ad auto-imporsi le loro assurde Categorie, gettando le maschere e dimostrando ciò che sono in realtà (in riferimento al conflitto interiore di Timothy, che si finge discendente di grandi re per voler obliare il suo destino da schiavo); il naturale istinto sessuale diventa anch’esso una schiavitù, tanto che Grace è costretta a masturbarsi con una coperta, prima di cedere alla violenza del falso dominatore Timothy. Ritornano i temi della giustizia, della violenza sessuale, del buonismo della nostra società contemporanea. Ritornano le scarne scenografie, la camera a mano e il montaggio prettamente Dogma, così come lo Stabat Mater di Pergolesi; ed esattamente come in Dogville l’uomo si crede un dio ma non è altro che un cane (gioco di parole tra ‘dog’ e il suo contrario, ‘god’). Tutto sommato questo Manderlay sarebbe un buon film, ma la domanda che viene spontanea è la stessa con cui abbiamo iniziato questa riflessione: “Perché fare un film così simile al precedente?”. Lars Von Trier risponderebbe che si tratta di una trilogia che necessita di coerenza stilistica, e che quindi, al di là di una nuova Grace nel terzo ed ultimo capitolo, Wasington, non dovremmo aspettarci sostanziali cambiamenti neanche nel prossimo futuro. Per il momento noi preferiamo lasciare allo spettatore l’ardua sentenza.
[Ottobre 2005]
Cast & credits:
Regia, soggetto e sceneggiatura: Lars Von Trier; fotografia: Anthony Dod Mantle; montaggio: Bodil Kjaerhauge e Molly Marlene Stensgard; interpreti: Bryce Dallas Howard, Isaac De Bankolè, Willem Dafoe, Danny Glover, Lauren Bacall; produzione: Film I Vast, Isabella Films B.V., Zentropa Entertainments; origine: Dan/Swe/Gb/Fr; distribuzione: 01 Distribution; durata: 139’; web info: www.manderlaythefilm.com.
