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Mi rifaccio vivo

Pubblicato il 11 maggio 2013 da Edoardo Zaccagnini


Mi rifaccio vivo

Sergio Rubini rimane un valido autore anche oggi che propone uno dei suoi film meno emozionanti: una commedia molto affollata che tocca con leggerezza temi delicati, ma che alla lunga brilla meno di quanto avrebbe potuto. Stavolta il regista sceglie la via del surreale, un po’ per affrontare il presente (suicidarsi di lavoro), un pò per raccontare quello che l’uomo fa da sempre, dividersi tra il bene e il male. Ma un po’ anche per continuare il suo personale discorso sul rapporto dell’uomo col potere, iniziato con La terra, proseguito con Colpo d’occhio e portato avanti con L’uomo nero. Un rapporto che creava tensione e conflitti insanabili, e che si scioglie in una pacificazione in questo film sottile e magico, come se Rubini riuscisse finalmente a sciogliere una fastidiosa matassa, a risolvere il problema con l’amore. L’egoismo cinico, la smania di potere, la distruzione dell’altro, la distanza tra l’io autentico e quello costruito sulle regole della spietata società, tutto questo c’è nel film, attualissimo nei contenuti e classico nel meccanismo di partenza. Qualcuno, prontamente, ha rilevato come Mi rifaccio vivo, undicesima prova del pugliese metà regista e metà attore, prenda spunto da un vecchio film di Lubitsch del ’43, Il cielo può attendere, e da altre parti è stato scritto che l’ultima fatica di Rubini discende da un film che somiglia molto, almeno nel titolo, a quello appena citato, ovvero Il paradiso può attendere di Warren Beatty, del 1978. Altri ancora hanno pensato a Blake Edwards e Vincent Minnelli, vero tutto, e certo è che Mi rifaccio vivo tenti la strada di una commedia più internazionale di quelle che vediamo spesso in Italia. Una commedia d’altri tempi e senza tempo, classica all’americana, che se fatta ad arte può diventare immortale. A parte Lubitsch, Beatty e gli altri tirati fuori dai critici più navigati, si sente anche la ricerca di quel vecchio "Capra’s touch" che tanto fa piacere (e bene) al pubblico. E da questo punto di vista Rubini mostra un animo felicemente inquieto, perché non c’erano, nel suo cinema precedente, film somiglianti a quest’ultimo suo. L’autore si mette sempre in cammino verso un’opera diversa da quella precedente, non solo per gli argomenti ma anche per le forme narrative adoperate. Ed in teoria, a tavolino, in partenza, ne nasce un film pregevole, interessantissimo, solo che poi i personaggi non montano come dovrebbero, e tutta la faccenda fatica a prendere il largo e a coinvolgere. Gli interpreti sono bravi, anche perché tra i pregi del Rubini autore c’è quello di essere uno straordinario attore. E quindi sa bene come mostrare ed indicare ai colleghi cosa vuole da loro. Dove sta allora il problema di questo film? In una sceneggiatura macchinosa e statica, con personaggi che non riescono a far schiattare dal ridere né a far ridere amaro, o a colpire nel segno non facendo ridere per niente. Il paradosso è che le idee e le simpatiche trovate non mancano. Prendiamo per esempio il Lillo Patrolo che allo specchio non segue i movimenti di Solfrizzi e se ne va per conto suo. Geniale, come l’idea di affidare a Carl Marx le decisioni nell’aldilà. Non è nei dettagli la debolezza del testo, ma nel suo complessivo sviluppo, prevedibile e monotono, ed è un peccato perché a ripensarlo dopo averlo visto e dopo averne colto le intenzioni, il film appare un’occasione mancata. E’ la storia delle ciambelle e del buco, nulla di grave, nessuna caduta o tradimento.


CAST & CREDITS

Regia: Sergio Rubini; Sceneggiatura: Sergio Rubini, Carla Cavalluzzi Umberto Marino; Fotografia: Fabio Cianchetti; Montaggio: Angelo Nicolini; Musiche: Paolo Buonvino; Interpreti: Emilio Solfrizzi; Neri Marcorè, Lillo Patrolo, Sergio Rubini, Vanessa Incontrada, Gian Marco Tognazzi, Margherita Buy, Valentina Cervi, Produzione: DOMENICO PROCACCI PER FANDANGO CON RAI CINEMA; Distribuzione: 01 Distribution


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