Miracolo a Sant’Anna

Spike Lee conosce alla perfezione il suo mestiere. I movimenti di macchina non sono mai messi lì a caso. Le ambientazioni, le immagini i volti stessi dei suoi personaggi sono meticolosamente scelti ed incorniciati sul grande schermo per andarsi ad incastrare alla perfezione gli uni con gli altri. Un immenso sconfinato puzzle che man mano che prosegue la pellicola acquista senso e arriva ad un finale che sembra sempre il solo possibile; quasi una scelta forzata, dettata dall’inconfutabile sensibilità artistica del regista afroamericano. Nonostante tutto ciò, il suo Joint questa volta scopre il fianco a diverse critiche e lascia lo spettatore perplesso più di una volta durante il “viaggio” filmico. Viaggio che inizia con due carrellate molto lente sulla soglia di due appartamenti distanti tra loro miglia e miglia, facendo precipitare la macchina da presa in un vorticoso flashback che ci trasporta fino al 1944. Ci ritroviamo così a Sant’Anna di Stazzema, luogo in cui il sedicesimo battaglione delle SS, il 12 agosto di quell’anno uccise 560 persone, perlopiù donne, bambini ed anziani.
Molti, scioccamente si sono soffermati sul fatto che il cineasta newyorchese abbia scelto (abbracciando l’interpretazione del romanzo di James McBride) di mostrare un partigiano, traditore come la causa scatenante della strage. Scelta che ha indignato perché, secondo la maggior parte della critica, “sporca” la memoria di chi ha sacrificato la propria vita per donare la libertà al nostro Paese. In realtà, ciò che dovrebbe "indignare" è il fatto che sin da subito il personaggio di Rodolfo appare come un pretesto per raccontare tutta un’altra storia e non come una vera e propria presa di posizione che vuole affermare con fermezza l’effimera esistenza di verità nette come il bianco e il nero in guerra, mettendo in luce che, in realtà, durante un conflitto armato ci si trova costantemente immersi in un paradosso, in cui la vittima deve trasformarsi in carnefice senza mai avere la certezza che ciò che sta facendo sia “completamente” giusto. Non basta il bellissimo personaggio di Peppi Grotta (interpretato da uno splendido Pierfrancesvo Favino), corroso da dubbi ed incertezze a dare credibilità a tutto il resto, perché Rodolfo non ha la dignità ed il coraggio di una vera e propria “scelta”, bensì solo ed esclusivamente quella di un escamotage di sceneggiatura che forza tutto verso una direzione ben prestabilita. Ciò si riperquote su tutto il film, rendendolo un polpettone eccessivamente didascalico, il quale addirittura riesce a sbiadire la sequenza di punta, ovvero quella dell’eccidio. Detto ciò, va anche sottolineato il fatto che musica e fotografia questa volta non vengono in aiuto a Spike Lee. La prima è eccessivamente presente e disturbante, la seconda (nonostante dietro di essa si nasconda la sapiente mano del compare di Darren Aronofsky, Matthew Libatique) sembra più adatta ad un film per la televisione che non per il grande schermo.
In sostanza un’opera alquanto deludente, con un finale che sfiora il ridicolo, nella quale però brillano tutti i nostri attori capeggiati dalla bravissima e affascinante Valentina Cervi, credibile sia in inglese che in italiano, e da Sergio Albelli, dimostrando che in mano a registi di livello, gli interpreti italiani non sono secondi a nessuno.
(Miracle at St. Anna); Regia: Spike Lee; sceneggiatura: James McBride in collaborazione con Francesco Bruni; fotografia: Matthew Libatique; montaggio: Barry Alexander Brown; musica: Terence Blanchard; interpreti: Derek Luke (Aubrey Stamps), Laz Alonso (Hector Negron), Pierfrancesco Favino (Peppi Grotta), Valentina Cervi (Renata); produzione: On My Own, Buffalo Soldiers In Italy; distribuzione: 01 Distribution; origine: USA/Italia, 2008; durata: 144’.
