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MISSION: IMPOSSIBLE 3

Pubblicato il 6 maggio 2006 da Adriano Ercolani


MISSION: IMPOSSIBLE 3

Partiamo dai “padri fondatori”: Kubrick, Scorsese, Coppola, Spielberg, De Palma. Proseguiamo poi con Ridley Scott, Oliver Stone, Ron Howard, Neil Jordan, John Woo, Paul Thomas Anderson, Cameron Crowe e per ultimo quello che considero oggi il più gran regista vivente, Michael Mann. Basta questa schiera di autori per fare la storia del cinema americano contemporaneo? Se consideriamo il fatto che Tom Cruise ha lavorato almeno una volta con tutti i cineasti sopra elencati, avremo forse un’esatta percezione dell’importanza e del carisma di questa star all’interno del sistema industriale hollywoodiano. Vi ricordate il trailer di Eyes Wide Shut? Sulle note bollenti di Chris Isaak le didascalie sparavano a raffica CRUISE KIDMAN KUBRICK e non KUBRICK CRUISE KIDMAN...

Tenendo ben presente inoltre che l’intero progetto di Mission: impossible, fin dai suoi albori, è intera farina del sacco di questo attore/produttore, risulta estremamente logico immaginare quanto sia arduo valutare il lavoro di un qualsiasi regista che si sia confrontato con le avventure della super-spia Ethan Hunt.

Per primo ci ha provato Brian De Palma, così attento a non scontentare il suo titanico committente da regalarci uno dei film più impersonali della sua carriera. Dopo è arrivato John Woo che invece, dopo lunghe battaglie e soprattutto lavorando su una sceneggiatura che è poco più di un canovaccio, ha prodotto una sinuosa “danza pagana” (splendida sintesi critica purtroppo non mia, ma del mio acuto ex-collega Luca Persiani). Per il terzo episodio, accantonati rifiuti eccellenti e giganteschi ritardi nella realizzazione, è toccato all’”enfant prodige” J.J.Abrams cimentarsi nell’impresa, ed il risultato finale a tratti è davvero sorprendente. Dopo aver ammirato in TV le capacità dell’autore dello straordinario Lost, appare subito evidente come Abrams sia riuscito a inserire in Mission: impossible 3 gli stilemi portanti della sua idea estetica.

Cerchiamo di spiegarci: cos’è che rende Lost una serie di qualità così elevata? A mio avviso la capacità di lavorare su un high-concept adatto ad esigenze “mainstream” realizzandolo però attraverso un’idea di messa in scena che si avvicina invece quanto più possibile ad una sorta di sovra-realismo. In un certo senso Abrams sembra aver fatto sua, aggiornandola ovviamente alle peculiarità estetiche e spettacolari di oggi, la lezione impartita da un grande autore della “New Hollywood” come William Friedkin: se pensiamo a Il braccio violento della legge e soprattutto a un capolavoro come L’esorcista, si può valutare come Friedkin lavorasse su prodotti di largo consumo commerciale, improntati però secondo un matrice visiva che li rendeva incredibilmente compatti e coerenti: che si trattasse di un leggendario inseguimento in auto o di un altrettanto mitica bambina posseduta, il cinema di Friedkin trasudava una sorta di veridicità più reale del reale, capace di essere sia “sporca e palpabile” che sublime spettacolo cinematografico - ovviamente non dimentichiamo il lavoro fatto da un grande collaboratore come Owen Roizman, direttore della fotografia di entrambi i film sopra citati.

Ebbene, sia in Lost che in questa sua prima esperienza cinematografica Abrams sembra riuscire a dotare la sua visione di questo sentore di tangibilità; quello che però nella serie Tv viene diluito nel tempo e sapientemente dosato nel ritmo, in Mission: impossible 3 subisce un ovvio processo di concentrazione che alla fine non giova all’operazione. Se infatti il film in molte scene possiede la forza devastante di una specie di “opera impazzita” e vitale, il surplus d’azione delle due ore e cinque minuti sembra mandarlo in overdose: proprio a causa della sua natura endemica, la pellicola non possiede infatti quello scarto liberatorio che permette alo spettatore di tirare il fiato. Si assiste così ad una serie pressoché ininterrotta di scene d’azione altamente drammatiche, girate con grande presa sugli attori ed enorme senso del setting: ciò che manca è però la necessaria possibilità di evadere, il momento in cui la sospensione dell’incredulità arriva a superare l’effettività di quanto vediamo accadere sullo schermo: in poche parole, a vedere Mission: impossible 3 alle fine non ci si diverte, ma si rimane in uno stato di tensione ed angoscia che ce lo hanno fatto amare allo stesso modo in cui poi lo abbiamo patito.

Prodotto sicuramente improntato al largo consumo; allo stesso tempo, lungometraggio denso e visivamente prezioso nella sua idea di messa in scena: questa la (falsa) dicotomia che fa di Mission: impossible 3 un film forse destinato a spaccare la critica, ma pronto a lanciare definitivamente e meritatamente un talento come J.J.Abrams.

(Id.) Regia: J.J.Abrams; sceneggiatura: Alex Kurtzman, Roberto Orci, J.J.Abrams; fotografia: Dan Mindel; montaggio: Maryann Brandon, Mary Jo Markey; musiche: Michael Giacchino; scenografia: Scott Chambliss; costumi: Colleen Atwood; interpreti: Tom Cruise (Ethan Hunt), Philip Seymour Hoffman (Owen Davian), Michelle Monaghan (Julia), Ving Rhames (Luther); produzione: Tom Cruise, Paula Wagner per Paramount Pictures; distribuzione: UIP; origine: Usa, 2006; durata: 126’; web info: sito ufficiale

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