Motel Woodstock

1969, Bethel, contea di Sullivan, 69 chilometri a sud ovest di Woosdtock. Un tipico angolo di tranquilla provincia americana. Poche case, pochissimi abitanti. Una vita monodica, passata fra un latte al cioccolato e un pomeriggio al saloon. Fu forse proprio per la noia e il tedio a morte del vivere in provincia che Michael Lang e Artie Kornfeld, rispondendo ad un annuncio dei due imprenditori Roberts e Rosenman, decisero di aprire in quella tranquilla e riservata cittadina un studio di registrazione, fondando la Woodstock Ventures. Nessuno di loro poteva immaginare che di lì a poco, Woodstock, sarebbe diventato il centro del mondo. Proprio nella primavera del ’69 infatti, il giovane Elliot Tiber, proprietario, con la sua famiglia, del motel “El Monaco”, si propose per ospitare, nella sua tenuta di 15 acri, un concerto organizzato proprio dalla Woodstock Ventures. Le settimane che seguirono, però, trasformarono un piccolo evento musicale in uno dei più importanti ed imponenti eventi che la storia delle musica ricordi. I celeberrimi “3 days of peace music” nacquero dunque dall’idea commerciale di un giovane proprietario di motel. Un percorso che Ang Lee racconta, arrivando al concerto ma quasi senza vederlo, in Taking Woodstock.
Ci sono casi in cui la realtà è talmente incredibile da far invidia a qualsiasi sceneggiatore. La storia di Elliot Tiber è sicuramente una di queste. Molti dei passi che fecero di Woodstock il mito universale che è oggi dipendono infatti proprio dalle decisioni di questo giovane imprenditore. L’essenza stessa del concerto, la possibilità di partecipare gratuitamente all’evento, pare sia dovuta proprio alle dichiarazioni avventate di Elliot. Un materiale incredibilmente prezioso per un regista come Ang Lee, a tratti geniale nelle sue messe in scena, ma spesso fiaccato da storie non all’altezza del suo talento. Una storia carica di ironia, divertimento e svago ma al tempo stesso pronta ad offrire, con lo stesso tono spensierato, momenti di riflessione. L’avvicinamento al concerto diviene così un modo per conoscere e conoscersi, confrontarsi con la realtà ipocritamente retrograda del paese e con i temi cardine del pensiero hippie. Il tutto in clima di gioco surreale, di divertissment che riporta alla memoria, anche di chi non l’ha vissuto, l’atmosfera magica di quei giorni.
Dopo I segreti di Brokeback Mountain e Lust, Caution, pellicole premiate entrambe con il Leone d’oro a Venezia ma deboli per ritmo e struttura, Ang Lee trova in questa commedia pienamente “made in America” una dimensione a lui ideale. Una pellicola pervasa, forse per la prima volta nella carriera del regista di Taiwan, da un spirito puramente americano. Spirito che si ripercuote, inevitabilmente, nella messa in scena. Con uno stile che affianca ad immagini sporche, ironicamente realisti, a split-screen e giochi di montaggio, Ang Lee riporta il pubblico al 1969, immergendolo nel clima dell’epoca, senza perdersi mai in retorica e lungaggini. Finanche il tema dell’omosessualità, così didascalicamente mostrato in Brokeback Mountain, trova in Taking Woodstock il suo spazio. La scoperta della sua sessualità è per Elliot solo una delle prese di coscienza che l’esperienza di Woodstock porta con sé. Tutte importanti, tutte vissute con la giusta “pesante” leggerezza. Una prova di grande bravura registica che trova, nel trip acido di Elliot, la dimostrazione di una grande fantasia visionaria. Una dimostrazione forse necessaria per cancellare dalla mente di molti i troppi premi ricevuti per pellicole non esaltanti.
(Taking Woodstock); Regia:Ang Lee; sceneggiatura:James Schamus; fotografia: Eric Gautier; montaggio: Tim Squyres; musica: Denny Elfman interpreti : Liev Schreiber, Emile Hirsch, Jeffrey Dean Morgan, Paul Dano, Eugene Levy, Kelli Garner, Michael Zegen, Imelda Staunton, Dan Fogler, Kevin Sussman, Demetri Martin; produzione: Universal Pictures international; origine: Australia; durata: 120’
