Nella rete del serial killer

Gli occhi sono fatti per guardare, forse anche per osservare.
Difficilmente sarà dato di sapere in quanti riescano anche a ’sentire’ e ad ’ascoltare’ gli altri, attraverso gli occhi, fino a poter ’partecipare’ alle loro sofferenze, che da tempo immemore sono state utili solo per essere se(le)zionate, digerite e poi dimenticate, assieme a tante altre prima di loro. E forse ’comprendere’ è divenuto ancor più complicato, sempre più immersi nel mare magnum della multimedialità che a piè sospinto si allarga a macchia d’olio, inglobando tutto e tutto rendendo uguale: immagini comprese. Tutte così banali, ormai, anche quando vorrebbero ergersi al di sopra dell’inutilità; più simulacri, che interpretazioni della realtà. Caratteristica, questa, che la visualità ai tempi di internet ha portato alle estreme conseguenze.
Portland, Oregon. Jennifer Marsh (Diane Lane) è un’agente dell’FBI, specializzata nel cyber-crimine. Quello che una sera illuminerà il suo monitor, però, non sarà il solito caso: non si tratterà di sventare il lavoro di qualche hacker che ruba le password di incauti navigatori in cerca di musica gratis su siti poco affidabili, ma di un gioco perverso messo in atto dal webmaster di killwithme.com. Tutto comincerà con il video (senza sonoro, ma di certo non muto) che raffigura la morte di un gattino, cavia che anticiperà il lavorio fatto di sevizie inflitte a vittime che, invece, di zampette ne hanno soltanto due. Il tutto avverrà richiamando sempre più l’attenzione di cybernauti che, disgustati o no, correranno comunque a frotte, accelerando così la morte del malcapitato: perché – massima perversione - l’agonia è direttamente legata al counter delle visite. Mentre il sito non può essere oscurato, né rintracciato.
Saw, Il Cartaio, Paura.com: il gioco, la tortura e i limiti (?) del mostrabile, così come la virulenza del male che sa come propagarsi attraverso le strade virtuali. Ma, a differenza dei film citati, Nella rete del serial killer sembra volersi affidare anche alle psicologie e alla sceneggiatura, evitando lo splatter spinto (come già nel film di Argento) e finendo per imbastire un discorso morale sull’atto del vedere che non appare né forzato né posticcio divenendo, anzi, il centro del racconto: il punto da cui tutto si dipana, ossia l’origine del peccato. Che, nonostante le apparenze, non è tanto internet, quanto, per l’appunto, il voyeurismo: il quale, ovviamente, è parte preponderante anche del cinema. Da ciò nasce una ambiguità di fondo che investe l’intero film, preso a metà tra il mostrare e il non mostrare, intrappolato nella rete della fascinazione subita a causa di eventi che, almeno inizialmente, appaiono come shockanti. Si tratta di un’opera che diviene, quindi, essa stessa oggetto del proprio discorso. E, difatti, quello che maggiormente colpisce è proprio il dito che punta contro l’uomo comune che, nascondendosi dietro l’anonimato, può diventare ancor più ’middle-class’, qualunque sia la provenienza socio-culturale nella ’First Life’ che abitualmente conduce ogni giorno. Perché una regola del mercato afferma che la domanda sia importante quanto l’offerta: e su internet il fruitore – che nelle sue scelte dovrebbe risultare meno passivo, rispetto a quando si siede di fronte a uno schermo televisivo - diviene ancor più colpevole di quanto gli viene offerto, così come del suo propagarsi. A fronte di ciò, il potenziale anarchico proprio della rete si scontra con un rispetto dell’ordine che alcuni potrebbero confondere con un reazionario spot pro-’Patriot Act’: ma, probabilmente, non si tratta altro che di un atto d’accusa contro la banalità del male, che può prendere le sembianze di chiunque, noi compresi. Forse per questo motivo il volto del serial killer ben presto spezza il velo dell’anonimato, mostrandosi prima che sopraggiunga la metà del film: e, assieme ai suoi lineamenti, pian piano emergeranno anche le motivazioni del suo agire che non faranno altro che spezzare la coltre di ipocrisia che ricopre quelli che l’FBI più volte definisce come ’americani-modello’. Tanto che il finale solo in parte appare catartico: perché nulla può cambiare.
Molto buona è stata la prova di Diane Lane che, con le rughe su un viso pulito da eterna fidanzata d’America, impersona una donna sola che vive con la madre e la figlioletta, oscillando tra forza e debolezza, come la Clarice Starling de Il silenzio degli innocenti (citato espressamente nel momento in cui la protagonista è vicina all’assassino). Mentre, fuori, Portland sembra vivere di un perenne autunno in un film che, nonostante la mancanza di novità - comunque funzionale a una sorta di poetica del ’déjà–vu’ - e certe passaggi di sceneggiatura utili più che altro a rendere tutto più facile, senz’altro non è da trattare male.
(Untraceable); Regia: Gregory Hoblit; soggetto: Robert Fyvolent e Mark R. Brinker; sceneggiatura: Robert Fyvolent, Mark R. Brinker e Allison Burnett; fotografia: Anastas N. Michos; montaggio: David Rosenbloom e Gregory Plotkin; musica: Christopher Young; interpreti: Diane Lane (Agente Jennifer Marsh), Colin Hanks (Agente Griffin Dowd), Billy Burke (Detective Eric Box), Joseph Cross (Owen Reilly); produzione: Cohen / Pearl Productions, Lakeshore Entertainment; distribuzione: 01 Distribution; origine: U.S.A. 2008; durata: 100’; web info: Sito internazionale.
