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À moi seule.

Pubblicato il 10 febbraio 2012 da Giovanella Rendi


À moi seule.

La tragica vicenda di Natasha Kampusch (rapita a 10 anni e tenuta prigioniera per i successivi 8 da un uomo con cui ha sviluppato un perverso rapporto vittima-carnefice, suicidatosi dopo la fuga della ragazza), dopo aver scosso e coinvolto tutto lo spettro dei media, non poteva lasciare indifferente il mondo del cinema. Il potentissimo regista-produttore tedesco Bernd Eichinger aveva annunciato un progetto sulla tragica storia, che è stato poi interrotto dalla sua morte. Ci aveva gia provato l’anno scorso il regista austriaco Markus Schleinzer con Michael, presentato al festival di Cannes, suscitando reazioni non proprio positive nella critica. Pur dichiarando di essersi ispirato alla storia di Natasha, il film trattava tuttavia del rapimento di un bambino di 10 anni da parte di un uomo. Lo sconosciuto, anche se non esordiente, regista francese Frèdèric Videa alza il tiro e racconta una vicenda molto, molto simile a quella originale e nonostante la scabrosità dell’argomento, la difficoltà di rappresentare la diversa psicologia dei personaggi, centra il bersaglio e realizza un film di grande forza ed equilibrio. Terrificante nella sua semplicità, À moi seule comincia dalla fine, da una ragazza che scappa da una casa di campagna e alla fermata dell’autobus in mezzo al nulla dove è approdata, vede la foto ormai ingiallita di una bambina scomparsa, che guarda come fosse un’estranea. Sarà lei? Oppure è un’altra delle migliaia di bambine che scompaiono, i cui genitori disperati si raccolgono in associazioni per farsi coraggio davanti ad una speranza sempre più fievole? Pur sospeso continuamente tra il presente e il passato, rappresentato da flashback non sempre immediatamente riconoscibili, il film non indugia sulla drammaticità dell’evento, sul clamore dei media, sulle ragioni del dramma. Tutti gli aspetti più eclatanti accadono fuori scena e vengono solo raccontati dai personaggi con grande pudore, spesso solo con lievi accenni. Il resto è soprattutto terribile routine: la routine di Gaëlle in cattività, la routine di Gaëlle nel mondo di fuori una volta riuscita a fuggire, che assomiglia pericolosamente ad un altra prigione, costretta a nascondersi dai giornalisti che pagherebbero migliaia di euro per una sua foto di oggi, ma anche chiusa nella struttura psichiatrica che la ospita per reinserirla nel mondo a cui `stata “rubata” per anni. Paradossalmente, oltre al senso di angoscia e claustrofobia, quello che colpisce maggiormente è la noia di Gaëlle prigioniera: nascosta nella cantina quando il suo rapitore Vincent è al lavoro, in giro per la sua casa chiusa a chiave e con le finestre sprangate quando lui c’è, Gaëlle legge, ascolta musica, disegna e soprattutto cambia continuamente il colore dei capelli, per ingannare il senso di morte che proviene dalla condanna: perchè Vincent le ha detto chiaramente, e quasi scusandosene, che lei da lì non uscirà più. Vincent, da parte sua, non è l’orco delle favole: è un uomo giovane, che ha un lavoro, una casa e che potrebbe facilmente trovare una donna. Il suo disagio esistenziale è indicato dall’incapacità di avere legami con altre persone, i conflitti con i colleghi, il suo isolamento. E’ un uomo a suo modo gentile, “non sono uno stupratore” grida a Gaëlle che con disperata lucidità affronta con lui l’argomento sessuale. Cosa sucede effettivamente tra loro, non è dato saperlo: nessuno dei due svela il segreto, ed è chiaro da subito che per Vincent l’importanza del loro rapporto consiste soprattutto nella perversa riproduzione dei rituali di coppia, come fare colazione insieme, cucinare, fare la lista della spesa. Il personaggio del rapitore, il più difficile da tratteggiare, emerge qui con una straordinaria commistione di tenerezza e di violenza, dietro cui si cela evidentemente la disperata illusione di poter ottenere l’amore con la sopraffazione, ovvero che tra lui e Gaëlle ci siano stati dei momenti felici e lei non scapperà. Grazie ad una straordinaria prova di attori, in particolare di Reda Kateb (già visto in Le prophet di Audiard) il film non perde un colpo, e riesce a toccare con agghiacciante normalità sia i temi della prigionia, che quelli altrettanto inquietanti della successiva libertà, come cercare le parole per raccontare l’indicibile ad una psicologa, riprendere contatto con genitori pressoché sconosciuti e amici d’infanzia testimoni del rapimento che prima di tutto, prima di rassicurare e aiutare vogliono essere rassicurati e perdonati.


CAST & CREDITS

À moi seule. Regia e sceneggiatura: Frédéric Videau; fotografia: Marc Tévanian; musica: Florent Marchet; interpreti: Agathe Bonitzer, Reda Kateb, Hélène Fillières, Noémie Lvovsky ; produzione: Les Films Hatari; origine: Francia 2011 ;durata: 91 min.


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