P.S. Jerusalem (Forum)
Film intimamente privato nel suo essere intimamente politico P.S. Jerusalem filma soggettivamente (la regista sta in macchina tutto il tempo) una famiglia, composta da Philippe, un padre francese ebreo con tratti mediorientali, una mamma filmaker ebrea israelo-americana, due maschietti di sei e quattro anni, Tristan e André, e un altro ancora abitante di un bel pancione gravido, che si trasferisce a vivere da New York a Gerusalemme, affatto liberata da conflitti, polizia armata, razzismo, tensioni religiose, allerta terroristici.
Danae Elon, classe 1970, è nata a Gerusalemme, figlia dell’intellettuale Amos Elon, morto nel 2009, uomo di pace vissuto quasi tutta la vita in un posto di guerra, ebreo di nascita ma duro e mai ideologico sul sionismo e sulle politiche del proprio paese nei confronti degli arabi, posizione scomoda in patria, soprattutto se esposta in volumi stampati e in occasioni pubbliche. L’ultima cosa che il padre fa giurare all’amata unica figlia prima di morire è di non tornare mai in Israele (da dove lui è scappato nel 2004 trovando rifugio in un piccolo paese della Toscana, dopo un simbolico e polemico abbandono della cittadinanza israeliana). Danae giura, Amos è libero di abbandonare il corpo. Ma su quel non ritorno per anni Danae riflette, si interroga e alla fine disobbedisce. La vita in Terra Santa è complessa: la famiglia cresce e cambia casa, affronta le differenze, si confronta con la realtà sociale compiendo ogni giorno delle scelte precise: Tristan, il figlio più grande, frequenta l’unica scuola elementare della città dove vanno bambini ebrei e bambini arabi, dove si insegnano le due lingue e si studiano le rispettive storie, delle religioni e delle azioni politiche. Danae, che da direttore della fotografia ha sempre l’arma in spalla, segue il primogenito durante le lezioni tenute da maestre illuminate e noi spettatori lo vediamo affezionarsi al compagno arabo, affettuoso e scherzoso come lui. Vediamo i due ragazzini giocare domandandosi la ragione dei posti di blocco, delle armi, delle sirene di allarme che suonano con regolarità e li obbligano a ripararsi in preposti rifugi sotterranei. Danae partecipa a manifestazioni di solidarietà con palestinesi buttati fuori dalle proprie abitazioni per imprescindibili decisioni edilizie governative, porta con sé il figlio più piccolo, chiamato Amos in memoria del nonno mai conosciuto, che osserva i soldati armati e il malcontento popolare: a volte anche guardare può diventare pericolo. Ma nemmeno la convivenza familiare è facile: Philippe è teso, dichiara insofferenza, difficoltà di ambientamento, necessita di una serenità che non riesce ad avere in un posto in cui la tensione regna ai massimi livelli. Una battuta è esemplare: "crescere nella banlieu parigina come ebreo che sembra un arabo è stato una passeggiata in confronto a come mi guardano quotidianamente, a come mi trattano da diverso, a come mi sento giudicato".
Durante una passeggiata che attraversa quartieri ebraici e quartieri musulmani i tre fratellini e l’amichetto palestinese (uno consiglia all’altro: "qui non parlare arabo", "qui non parlare ebraico") scandiscono i confini di una città che è un puzzle: di culture, di odori, di cucine, di usi, di abusi, di certezze assolute, di dogmi, di dubbi, di vicoli bui, di luminarie, di arcaico, di moderno. Nevica. Una mattina tutti e quattro si svegliano e c’è la neve: una epifania per i bambini che la associano alla città da cui vengono, la gelida grande mela, e non a quel luogo desertico pieno di natura selvatica e sabbia che entra negli occhi alzata dal vento. I bambini ridono e fanno festa guardando sconcertati dalla finestra tutto ricoperto di bianco.
Davanti alla macchina da presa accesa che registra i minimi spostamenti di sopracciglio, le mani nervose che piegano i panni asciutti, il giardino a pian terreno, i voli in altalena e gli arrampicamenti a tentoni di un neonato che cresce, si svolge una minimale "scena da un matrimonio" di una coppia non sposata, composta da nuclei di diverse nazionalità, di lingue diverse, alle prese con una società doppia, incapace di accettare il diverso da sé: un rompicapo labirintico che si morde la coda e che potrebbe essere causa del suo male. La regista, che sentiamo respirare tutt’uno con il corpo della telecamera, ha la lucidità e l’intelligenza di ascoltare il cuore invece che la mente: la stessa coscienza di appartenenza al luogo dove è cresciuta - ormai pieno di violenza, odio, disprezzo - che l’ha portata a trasferirsi in Israele insieme a i suoi quattro maschi, le detta saggiamente un altro finale. Vanno via. Non si dice dove. La vettura è carica. Il piccolo Amos, ingabbiato nel seggiolino, piange. Tristan deve dire addio al suo compagno, un fratellino di adozione, primo amico della sua vita. L’abbraccio è straziante, senza fine, sotto gli occhi della mamma palestinese che cerca di sdrammatizzare. In viaggio verso l’aeroporto Tristan, profondamente calato nella sua perdita, non si presta più: "mamma, puoi smettere di filmare, per favore?". This is the end, my only friend, the end.
(P.S. Jerusalem); Regia: Danae Elon; sceneggiatura: Sophie Farkas Bolla; montaggio: Sophie Farkas Bolla; musica: Olivier Alary; interpreti: Luai Musa Hatib, Philip Touitou, Amos Touitou Elon, Tristan Touitou Elon, Andrei Touitou Elon; produzione: Entre Deux Mondes, distribuzione: Ryan Bruce Levey film distribution and PR services; origine: Canada/Israel, 2013; durata: 87’