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PARADISE NOW

Pubblicato il 23 febbraio 2005 da Giovanella Rendi


PARADISE NOW

Khaled e Said sono amici per la pelle dall’infanzia: lavorano insieme, escono insieme, insieme parlano di ragazze, insieme hanno deciso di morire. Si, perché Khaled e Said vivono a Nablus e, pur conducendo un’esistenza del tutto normale (compatibilmente, si intende, con il fatto di vivere nei territori occupati) hanno deciso di sacrificare la loro vita di ragazzi per la causa palestinese, convinti che non vi siano altre alternative per mettere fine all’infinita faida mediorientale. Quando vengono improvvisamente chiamati per una missione suicida a Tel Aviv, hanno la possibilità di passare la notte a casa con le famiglie, ma questa diviene ancora più dolorosa per l’obbligo di tacere e fingere che tutto sia come al solito. Il giorno seguente assistiamo a tutti i rituali della preparazione, scanditi dai vuoti slogan dei capi sul paradiso che li attende, sull’importanza della loro missione, ben guardandosi però dal condividere un simile radioso aldilà: dal pasto, alla sistemazione degli ordigni nella cintura, alla ripresa delle ultime dichiarazioni, ma la macchina da presa per errore si spegne e Said, deluso, deve ripetere da capo tutto il suo infuocato messaggio, che viene fuori con molta meno convinzione (si osa l’inosabile, si ride del terrore, la sua delusione strappa una risata liberatoria allo spettatore). Le cose, tuttavia, non vanno mai come si pensa, e i due ragazzi si troveranno divisi sia nelle loro convinzioni, sia materialmente, uno al di qua, uno al di là dei confini vigilati dai soldati israeliani. Il palestinese Hany Abu-Hassad, già autore di Rana’s Wedding (2002), affronta un tema quanto mai attuale e delicato come quello del terrorismo suicida e delle motivazioni che spingono un giovane a farsi saltare in aria con lo scopo di uccidere quante più persone intorno a sé, chiunque esse siano. Il merito della pellicola è quello di allontanarsi da facili sensazionalismi e suggerire come i giovani di cui vediamo poi solo i funerali siano talvolta non dei fanatici esaltati ma, cosa ancora più agghiacciante, persone lucide e convinte del martirio nell’accezione islamica del termine. L’altra faccia della medaglia è rappresentata invece da Suha che, anche se figlia di un noto martire della causa, ha scelto la via moderata del dialogo “per non dare ad Israele altri alibi per attaccarci”, a cui Sahid risponde: “se noi avessimo i missili come loro, non avremmo bisogno dei kamikaze”. Il personaggio più complesso è rappresentato, però, da Khaled che, insieme con le motivazioni politiche, porta con sé la vergogna di un padre collaborazionista, ucciso quando lui era bambino. La questione resta aperta e non sarà certo un film a risolverla. Al tempo stesso è importante che, malgrado qualche eccesso didascalico evitabile, film come Paradise now siano in grado di restituirci degli elementi per riflettere.

[Ottobre 2005]

regia: Hany Abu-Assad; sceneggiatura: Hany Abu-Assad, Bero Beyer, Pierre Hodgson; fotografia: Antoine Heberlé; montaggio: Sandor Vos musica: Jina su medi; interpreti: Kais Nashef, Ali Suliman, Lubna Azabal, Amer Hlehel; produzione: Augustus Film; durata: 90’; origine: Olanda, Germania, Francia 2004

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