Passengers - Mistero ad alta quota
Il vero e forse unico mistero di Passengers - Terrore ad alta quota alberga nelle motivazioni che possono aver spinto una giovane star in ascesa come Anne Hathaway e soprattutto un regista talentuoso come Rodrigo Garcìa (tra l’altro figlio di Gabriel Garcia Marquez) ad interessarsi alla demenziale sceneggiatura di Ronnie Christensen, scrittore che fino ad oggi poteva vantare solo tre mediocri tv movie, due dei quali giunti anche sugli schermi italiani (Le voci del mistero e Magnitudo 10.5).
Il plot è scarno ed esile, sterilmente ammiccante e vagamente compiaciuto: una psicologa riceve l’incarico di occuparsi di otto sopravvissuti ad un incidente aereo avvenuto in circostanze poco chiare. Le chiacchierate con i pazienti fanno emergere nuovi inquietanti elementi sul caso e spingono la bella psicologa nelle braccia di Eric, aitante superstite che nasconde un’inquietante verità.
Tra Lost (l’incidente aereo, i superstiti sull’isola, l’accompagnamento musicale pressoché identico) e Sesto Senso, ma senza il radicale cinismo scopico della serie di J. J. Abrams e senza l’inquietudine delle atmosfere alla Shyamalan, lo script di Christensen non ha mai un guizzo, un sussulto, perde pezzi, spreca scena dopo scena tutta la possibile suspance, diventa prevedibile dopo pochissimi minuti. Peccato davvero, perché l’inizio, per merito soprattutto di una regia che sin dalle prime inquadrature lotta ferocemente con la sceneggiatura, sembra promettere uno sviluppo differente. Garcia ha un pedigree di tutto rispetto: regista di numerosi episodi di serie televisive di ottima qualità come Six Feet Under e I Soprano, sceneggiatore e regista dello splendido e innovativo In Treatment, autore di un buon esordio sul grande schermo come Le cose che so di lei, confermato dall’opera seconda, Nove vite da donna, Pardo d’oro al Festival di Locarno, Garcia è sicuramente da annoverare nel nutrito gruppo di giovani registi sudamericani che da qualche anno a questa parte sta giustamente meritando grande attenzione critica. Così, anche in questo caso, servendosi del buon lavoro alla fotografia del quasi esordiente Igor Jadue-Lillo, Garcia immagina una Vancouver irreale e immateriale che diventa il giusto contesto per un disaster movie con commistioni sovrannaturali. Fino alle prime terapie di gruppo, giocando con i contrasti, con il rapporto tra campo e fuori campo, con lunghe inquadrature e un ritmo lento, al regista colombiano riesce l’impresa di tenere a galla il film, che si inabissa, però, impietosamente, con l’incedere imbarazzante delle conversazioni tra la dottoressa e i suoi pazienti, toccando il fondo con il grossolano rapporto sentimentale tra i due protagonisti.
Più in generale, il grandissimo handicap di cui soffre Passengers, è rappresentato dagli orizzonti limitatissimi lungo cui il film si muove. Al di là del valore estetico, che è comunque scarso, il film non riesce ad essere nulla più di quel che è, non si presta a spunti di riflessione sul cinema o sulla televisione americana, non è rappresentativo di alcuna tendenza, non ci dice nulla sulla società americana, si limita a raccontare, male, una scontatissima storia thriller, senza respiro, senza elementi di trasversalità. Che dire di Anne Hathaway, in queste settimane al cinema anche con Rachel Getting Married di Demme, film di ben altro spessore? La sua è una presenza impalpabile, attraversa il film quasi trasognata, come volesse liberarsene. Stesso discorso per i bravi caratteristi che completano il cast, su tutti Andre Braugher, e per la sempre piacevole Dianne Wiest, qui davvero sprecata.
(Passengers); Regia: Rodrigo Garcia; sceneggiatura: Ronnie Christensen; fotografia: Igor Jadue-Lillo; montaggio: Thom Noble; musica: Ed Sheamur; interpreti: Anne Hathaway (Claire Summers), Patrik Wilson (Eric), Andre Braugher (Perry), Dianne Wiest (Toni); produzione: TriStar Pictures; distribuzione: Moviemax; origine: Usa, 2008; durata: 113’