PESARO 42 - WE CAN’T GO HOME AGAIN

Tokyo. Il caos della capitale giapponese ripreso dalla lucida freddezza di una videocamera. Cinque giovani ne percorrono le vie, errando come vagabondi attraverso i parchi, le strade affollate, i club soffocanti. Lontane le atmosfere ovattate delle più recenti pellicole giapponesi, con la mente piena di ricordi di geindaigeki, l’occhio della videocamera lascia agl’attori in scena la più assoluta libertà di muoversi, svincolati da ogni obbligo o copione. Nel solco delle esperienze del cinema americano indipendente degli anni ’70, con gli occhi colmi delle immagini di The Edge (R. Kramer ’67), Fujiwara Toshi esordisce alla regia girando una docu-fiction che mostra, senza reticenze, la vita,le emozioni, le perversioni di una megalopoli. Le voci dei ragazzi in scena si intrecciano in una melodia polifonica ricreando l’atmosfera di un Giappone molto più vicino di quanto la geografia possa mostrare. Si può discutere sulla forma di un progetto che per scelta stilistica rasenta il dilettantismo. Si può criticare la possibilità di girare un film privo di copione e dalla fotografia apparentemente amatoriale. Ma si deve prender atto del coraggio di un regista esordiente di sperimentare, aprendo gl’occhi davanti alla realtà scevra da manierismi e formalismi, malcelando, fra le righe di racconti appena abbozzati, la volontà di affrontare profonde questione estetiche. Come non notare, accanto al racconto della sua città, all’università, alla cinefilia, il continuo riferimento al rapporto, a volte esasperatamente dualistico, fra soggetto e maschera, essere e apparire. Lo sdoppiamento fra ciò che è e ciò che appare , fra noi e la stessa nostra immagine è un filo rosso che lega i personaggi in scena. Robert De Niro, citato a modello come colui che “è” e non interpreta, che “ha fatto il cabbie per girare Taxi Driver” e Atsushi che si masturba davanti alla sua stessa immagine, bella, altro da se, sono rappresentazioni emblematiche di questa filosofia. Come spesso accade fermarsi all’apparenza, all’analisi spicciola, al giudizio d’impatto è un grave peccato di superficialità. Le immagini grezze di We can’t go home again ne sono l’ennesima dimostrazione.
Regia, sceneggiatura, fotografia: Fujiwara Toshi; musica: Simon Stockhausen; interpreti: Yushin Katori (Yushin), Atsushi Shimoda (Atsushi), Kurumi Takasawa (Kurumi), Mao Torii (Mao Sekiguchi), Tetsuya Yamada (Tetsuya); origine: Giappone; durata: 111’
