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Pesaro 43 - Il DopoFestival

Pubblicato il 11 luglio 2007 da Salvatore Salviano Miceli


Pesaro 43 - Il DopoFestival

Nel contesto del Festival di Pesaro, conclusosi il 2 Luglio scorso, il DopoFestival ha rappresentato per cinque serate l’evento conclusivo della giornata. All’interno di Palazzo Gradari è stato presentato il lavoro di artisti che del video si sono serviti per costruire e proporre le proprie visioni, i propri sguardi del e sul mondo.
Di seguito l’intervista realizzata ad Antonio Pezzuto, curatore della sezione insieme ad Adrienne Drake.

C’è la sensazione che il DopoFestival sia stato pensato come un lungo omaggio ‘all’immagine’, slegata da qualsiasi vincolo narrativo e tecnico.

Il DopoFestival raccontava semplicemente una delle forme attraverso le quali si articola l’immagine nel mondo dell’arte contemporanea. Nessun omaggio o glorificazione di uno dei cinque sensi rispetto agli altri, o di una delle arti rispetto alle altre. Ci ha mosso semplicemente la voglia di vedere e far vedere cose nelle quali ci imbattiamo quotidianamente e che di fatto stanno modificando il nostro modo di percepire il reale, e di relazionarci tra di noi. Gli invitati non sono tutti ‘videoartisti’, ma artisti che in un particolare momento del loro percorso hanno usato il mezzo del video. E, ovviamente, fanno un lavoro molto interessante anche quando usano altre forme d’arte. Ma questi video, questi lavori, ci sono, esistono. Nelle gallerie, su Internet, nei musei. Sono uno dei mezzi attraverso i quali si può raccontare il mondo, ed il Festival di Pesaro non può ignorare immagini in movimento che servono a comprendere il nostro quotidiano.

Quali i criteri di una selezione che alternava opere più strettamente narrative ad altre che affidavano il racconto alla sola suggestione visiva.

I giudizi estetici lasciano un po’ il tempo che trovano. Non si tratta di ricercare il ‘bello’, ma di interessarsi all’interessante. E secondo noi è molto interessante questa procedura che va avanti da un po’ di anni per cui ci sono, sempre di più, artisti e curatori che utilizzano forme non convenzionali per produrre e per distribuire i loro lavori. La selezione non è stata fatta, quindi, sui contenuti o su un progetto puramente estetico. Fare solo questo discorso ci sembrava un po’ troppo astratto. Trovare nuove forme per raccontare il contemporaneo necessità pure di uno sguardo diverso su quello che ci circonda. E per questo abbiamo deciso di dedicare una serata a video realizzati da artisti che avessero il reale come punto principale di partenza. Documentari, si direbbero, se non fossero mostrati nei musei.

Era forte il legame con l’architettura e lo spazio che ospitava le proiezioni. Non più dunque la richiesta di una visione attenta ma l’apertura ad una fruizione delle opere più libera, quasi anarchica per tempi e modi. È stato uno degli aspetti su cui avete lavorato nello strutturare un evento che si poneva a chiusura della giornata del festival ?

Questa è una delle domande centrali. Il legame con lo spazio è sempre importante. Il rapporto tra chi guarda e ciò che è proiettato è fondamentale. Il discorso che volevamo fare era proprio legato alla molteplicità delle forme della visione oggi. Ma lo spazio va riempito. Il luogo in cui si sono svolte le serate è stato abbastanza casuale. Quello che non era casuale è la procedura della visione. La forma della percezione. Ed il contenuto. Ci sono un sacco di luoghi nei quali si vedono immagini proiettate. Il problema è anche quali immagini vogliamo proiettare. Le immagini creano domande, pongono questioni. Se fai vedere immagini idiote, produrrai pensieri idioti. Va salvaguardata la qualità del nostro tempo liberato. Non basta proiettare immagini qualsiasi, magari anche gradevoli o movimentate. Lo sforzo è stato quello di trasformare uno spazio ludico (un bar), in uno spazio produttivo di pensieri. Inserito nel contesto del festival, fuori dalla sala, ma nella sua stessa linea.

Possono questi lavori rappresentare una metastasi importante per un settore, quello dell’audiovisivo, che pare essere maggiormente proiettato verso una più libera ed eterogenea ricezione e creazione ma che poi, in realtà, si ripiega su se stesso negando visibilità a chi, per scelta o costrizione, non assimila il proprio linguaggio ai canoni imperanti.

La forza rivoluzionaria delle immagini è nelle immagini. Poi certo, non si può prescindere dalle forme della produzione, che non va, però, intesa come subordinata al tipo di immagine che vogliamo usare. Va imposta. Più l’immagine è forte e rivoluzionaria, più sarà in contrapposizione al sistema. E non si può piangere se questo sistema non accetta le nostre storie, i nostri accostamenti, le nostre visioni. Bisogna trovare altre strade. E fare. L’anno scorso abbiamo avuto una dimostrazione della possibilità di riuscire proprio qui a Pesaro grazie ai registi filippini, che oggi vincono i festival ed escono nelle sale. Oggi esistono migliaia di strumenti e di situazioni che ci permettono di lavorare e di esprimerci. Da Internet in giù. Tutto sta nell’aver voglia (bisogno) di usarli, questi strumenti.


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