Pesaro 43 - Sos Europa Doc - Ha’bitchonim (Hot House)

In un locale israeliano, un uomo-bomba deflagra uccidendo decine di persone. Tra di loro ci sono otto bambini. Quasi in contemporanea, un’emittente palestinese rilancia, fiera, la notizia. Potrebbe essere un triste esempio della normale follia che insanguina quei territori, se non fosse per il particolare del serafico volto della giornalista che lancia la news: lo stesso che ha appena accompagnato il kamikaze a morire.
E’ probabilmente questa, l’immagine più inquietante di un documentario, Hot House, che fa dell’ambiguità un veicolo di riflessione. Ambigua è la democrazia in un paese in cui viene liberamente e legittimante eletto un partito come Hamas, ambiguo è il rapporto fra terrorismo, ideologia e criminalità comune, ambigua è la vita delle carceri, in cui d’incanto spariscono le lotte intestine e fratricide. L’indagine compiuta dal documentarista israeliano Shimon Dotan intervistando, nelle prigioni del suo paese, terroristi e fiancheggiatori delle varie fazioni palestinesi, è infatti un importante pretesto per raccontare una realtà molto più ampia. La realtà, ad esempio, più che ambigua, di un partito che conta fra i suoi eletti decine di detenuti per terrorismo. In questa situazione al limite dell’assurdo, il carcere israeliano diviene una sorta di piccolo Parlamento, in cui le fazioni palestinesi, su tutte Hamas e Fatah, creano i propri collegi, i propri rappresentanti, si riuniscono e parlamentano. Il tutto in un clima di democraticità molto più “vero” e sentito che nel reale Parlamento palestinese. La presenza del carceriere israeliano, nemico comune, presenza invadente e continua (più dei coloni), unifica e pacifica le fazioni in lotta, restituendo un clima leale che fa della discussione e della polemica l’unica arma del confronto. Sentendo il rispetto reciproco riecheggiare di cella in cell,a non può che risuonare nella mente ancor più forte il vecchio paradosso: senza vincoli, l’uomo non può essere libero.
La forma estremamente narrativa, la scelta di un montaggio fatto di dissolvenze, di sovrapposizioni, unito proprio al paradossale clima pacificato delle carceri, carica la pellicola di una sorpresa quasi spesante. Un effetto che stride, come il sorriso compiaciuto della giornalista che annuncia la strage. Se sia questo il sottile tentativo da parte di un regista israeliano di dimostrare fino a che punto arriva la libertà del proprio paese, e dunque, quanto è distante la sua cultura da quella di chi, a pochi chilometri da lui, festeggia con raffiche di mitra, poco importa. Il film lascia nello spettatore la voglia di discutere, di confrontarsi. Le dietrologie ambigue lasciamole agl’imbonitori.
Giampiero Francesca
Regia: Shimon Dotan; sceneggiatura: Shimon Dotan; fotografia: S. Goldman, P. Bellaich, H. A. Sada; montaggio: Ayala Bengad; musica: Ron Klein; formato: Colore, Beta SP; produttore: Arik Bernstein; produzione: Alma Films; distribuzione internazionale: Doc & Co; origine: Israele 2006; durata: 89’; sito: www.alma-films.com
