Pesaro 48 - Incontro con Nanni Moretti

Pesaro, 30 giugno 2012
Nanni Moretti, a Pesaro per la retrospettiva a lui dedicata, ha incontrato il pubblico al Teatro sperimentale, dove è stato intervistato da Bruno Torri e Vito Zagarrio.
Bruno Torri: L’anno scorso la retrospettiva del Festival di Pesaro era dedicata a Bernardo Bertolucci, esponente di quel nuovo cinema italiano di cui credo tu abbia raccolto il testimone, tu senti una continuità tra il tuo lavoro e quello delle Nouvelle Vague di quegli anni?
Le mie esperienze di spettatore sono state importanti per il mio lavoro di regista, e come spettatore e regista sono ed ero molto legato al cinema degli autori anni ’60. Era un cinema che contemporaneamente rifletteva sui propri mezzi di rappresentazione e sulla realtà. Ogni regista con il proprio stile; ma attraverso quei film si prefigurava un nuovo cinema ed una nuova realtà e società. Non erano solo aridi film che riflettevano sul cinema, o film politici un po’ rozzi che si disinteressavano del mezzo espressivo. Si trattava di autori molto consapevoli che riflettevano sulla realtà rifiutando l’eredità che avevano avuto dai loro padri, così come rifiutavano il cinema precedente.
Vito Zagarrio: Hai sempre mostrato molto interesse verso la cinefilia.
Ci sono registi molto più cinematograficamente colti di me, Gianni Amelio è il primo nome che mi viene in mente. Io sono un appassionato, arrivato a essere uno spettatore costante molto tardi, non come in quel film di Truffaut dove un bambino va al cinema tutti i pomeriggi. Ho iniziato ad andare al cinema costantemente a 15 anni: andavo al Nuovo Olympia e poi alla piscina del Foro Italico. E’ difficile parlare di se stessi, si ha poco distacco, ma per quel poco che posso capire di me mi sembra che, rispetto a 40 anni fa, come spettatore ho la stessa curiosità di vedere i film degli altri che avevo allora, e come regista ho la stessa voglia di raccontare storie attraverso il cinema. Anche come spettatore mi sembra quindi che il mio rapporto con il cinema sia rimasto integro. Se io faccio anche l’esercente, il distributore e il produttore non è per dovere, ma per piacere: non mi sento portatore di una missione, mi fa piacere condividere le mie scelte con il pubblico.
BT: A differenza degli altri registi sei anche attore di tutti i tuoi film. Che fatiche in più comporta questa scelta e come fai ad avere il controllo del set?
Da Palombella Rossa in poi ho avuto la possibilità, appena fatto il ciak, di vederlo subito al monitor. Prima non esisteva questo controllo video, un attore-regista chiedeva com’era andata all’operatore, all’aiuto regista: se c’erano stati movimenti imprevisti, di macchina, di comparse sullo sfondo eccetera.
Bisogna essere concentrati su più fronti: come regista, attore e, se si recita con altri attori in un’inquadratura, bisogna anche dirigerli. E’ più difficile ma mi è venuto naturale fin dall’inizio, da quando ho fatto i miei primi cortometraggi in super8. Un’altra cosa che mi venne naturale da subito è stata quella di raccontare del mio ambiente politico, personale e generazionale. Non è un obbligo raccontare quello che si conosce meglio, ma per ora è sempre stato così. E la terza cosa che mi è sempre venuta naturale è raccontare il mio ambiente e quindi me stesso con ironia, prendendomi in giro. Ma sono tutte cose che non facevano parte di un programma estetico o cinematografico.
VZ: Ci dici qualcosa del tuo stile e se c’è stata un’evoluzione.
Io giocavo a pallanuoto e mi ero specializzato in un tiro, la palombella: avevo fatto di necessità virtù; non ero forte fisicamente e mi ero così costruito un mio stile di gioco, un tiro non di potenza ma di astuzia e precisione. Allo stesso modo con i miei primi super8 ho fatto di necessità virtù; sapevo che non potevo disporre di attori professionisti né di grandi mezzi – gru, dolly, carrelli - e ho iniziato la sfida che mi son portato dietro a lungo: usare attori non professionisti e la macchina fissa. Nei miei primi film l’ho utilizzata molto, ho creato un mio stile per cui la mdp non andava appresso agli attori, ma loro si muovevano in un quadro fisso. Questo anche per ricordare agli spettatori che non stavano assistendo alla realtà, ma ad un mio punto di vista su di essa. Come spettatore e regista io preferisco quegli attori e attrici che non si annullano completamente nel personaggio che interpretano, mi piace qualcos’altro: vedere l’attore, la persona, oltre al personaggio. Non mi dispiace quando il film ricorda allo spettatore di essere un film. Anche in questo caso ricorro ad un paragone con me stesso spettatore: all’inizio avevo un modo più freddo di vedere i film, ero alla ricerca della perfezione formale e così tendevo a non emozionarmi, a dare meno importanza all’intreccio narrativo. Ho presente un momento preciso, nel dicembre 1981, in cui ho visto un film – La signora della porta accanto - che ha aperto per me una nuova fase, perché mi emozionò e colpì molto. Quindi dal mio lavoro successivo, Bianca, sin dalla sua scrittura ho iniziato a dare più importanza alla storia: cominciavo ad emozionarmi come spettatore e volevo cominciare a emozionare come regista. E’ anche la prima volta che ho chiamato un’altra persona a scrivere la sceneggiatura con me: Sandro Petraglia, con cui poi ho lavorato anche per La messa è finita.
VZ: Ci parli del tuo rapporto con l’ideologia e la politica?
Tu parli di ideologia e a me viene in mente una breve scena di Io sono un autarchico in cui cercavo di leggere un brano di Marx e dicevo “ma qui non sto capendo niente, forse ho sbagliato ideologia”. Anche se negli ultimi anni molti lo hanno dimenticato, io non ho fatto altro che prendere in giro la sinistra, nei miei film e anche nella realtà. Quindi si tratta sempre di raccontare il mio ambiente con ironia. Ho cercato di tenere distinte le sfere di cinema e politica. Quando ho fatto parte del movimento dei girotondi non ho girato nulla, e rare volte la politica è entrata direttamente nei miei film: in Aprile, Il caimano e in Palombella rossa, anche se in modo molto poco realistico. Non è che con i miei film volevo cambiare la testa degli spettatori, volevo solo raccontare quelle storie, così come avevo voluto raccontare la nascita di mio figlio e la prima vittoria della sinistra in Italia nell’arco di un secolo. Di volta in volta questo sentimento che diventa sceneggiatura esige uno stile diverso, o magari anche una produzione diversa. Alle volte ho bisogno di iniziare con una sceneggiatura solida alle spalle, e altre volte inizio a girare con un po’ meno di una sceneggiatura, quindi ci sono dei buchi narrativi che spero di riempire durante le riprese o il montaggio, di completare lavorano. La politica è entrata nei miei film meno di quanto si pensi: prima venivo considerato un regista molto personale, privato. Poi dopo i girotondi, senza che avessi fatto neanche un nuovo film, venivo considerato un regista politico. Ma ho partecipato a quel movimento come cittadino, non come regista. Volevo usare la mia faccia e il mio nome in favore di un modo di fare politica in cui credevo: contestavamo sia la destra al governo e sia quella che sentivamo come l’inadeguatezza della sinistra. Le nostre manifestazioni si rivolgevano a tutto l’elettorato, anche se votavamo a sinistra: erano per l’istruzione pubblica, la sanità eccetera. Mi sono quindi riposato come regista e mi sono dedicato ad un movimento autonomo. Ma la politica, in modo diretto, è entrata poco nei miei film. Anche per Habemus papam qualcuno mi ha chiesto se fosse lecito leggerlo come una metafora della società italiana. Così come per La stanza del figlio mi chiesero se si poteva interpretare la scena in cui inchiodano la bara come la morte del ’68. No, non è lecito.
VZ: Parlaci del tuo rapporto col femminile, Moretti e le donne.
Negli ultimi tempi ho collaborato anche con sceneggiatrici: in La stanza del figlio (Linda Ferri), Il Caimano e Habemus Papam (Federica Pontremoli), e per il film che sto scrivendo ora. Anche la scenografa di Habemus papam, Paola Bizzarri, ha fatto un lavoro enorme. Vi posso anche anticipare che nel mio prossimo film la protagonista è una donna.

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