Pietro

Diventano finalmente tre i lungometraggi di uno dei cineasti più interessanti e coerenti del cinema italiano contemporaneo, quello nato con il nuovo millennio e che, nel migliore dei casi, vede i suoi più prolifici rappresentanti giunti al quarto film. In alcuni al terzo, spesso al secondo, qualche volta al primo, nonostante la buona qualità di un esordio a volte nascosto o perfino invisibile, smarrito, non invitato al rapporto col pubblico.
Questo per dire del poco interesse che ruota attorno al cinema d’autore nell’Italia di oggi: roba per pochi appassionati, roba da elogi e brindisi in un festival. Nomi e titoli estranei alla massa, per dirlo citando uno del gruppo, Vincenzo Marra, uno dei "giovani" autori italiani che provano a raccontare più il paese che il loro piccolo mondo personale.
Quando parliamo di terzo lungometraggio di un cineasta che stimiamo, ci riferiamo a Daniele Gaglianone, (I nostri anni, Nemmeno il destino) che a Locarno porta in concorso, dopo la bella avventura di Rata nece biti (il doc. che ha vinto Torino ed il David di Donatello nel 2009), Pietro, un film secco e turbante, angosciante dal primo all’ultimo minuto. E’ un film di pedinamento che parla di violenza sociale, solitudine e sopraffazione in un angolo anomino e paradigmatico di Italia contemporanea, urbana e malsana, inascoltata, dimenticata.
Pietro non fa nessuna concessione alle esigenze del pubblico medio italiano, piuttosto a suo agio con l’apertura improvvisa degli estintori sopra un film fino a un certo punto infuocato come La nostra vita, per fare un esempio, che andava verso il tragico finchè qualcuno ha detto stop, fate entrare le pompe idrauliche, il lieto fine, o insomma, qualcosa di simile, perchè sennò al cinema chi ci viene?
In Pietro no, non c’è scampo alla messa in luce del male, dell’orribile possibile. Sarà la produzione indipendente, saranno la determinazione ed il carattere dell’autore, sarà la presenza di Arcopinto nel progetto, sarà che Pietro è un altro tipo di lavoro rispetto a quello di Luchetti, Rulli e Petraglia (La nostra vita), sarà che è un film con un’altra storia produttiva, e che avrà un’altra strada distributiva, un’altra vita, insomma, speriamo non invisibile (per fortuna la Lucky Red ha già deciso di distribuire la pellicola), e non è un caso che il suo rapporto con l’esterno cominci proprio da Locarno, Festival aperto a linguaggi e contenuti forti, estremi, attento a quella qualità che prescinde dalle abitudini del grande pubblico da sala.
Sarà che Gaglianone e Luchetti, per capirci, sono appunto Gaglianone e Luchetti, e cioè gli autori di due modi diversi di fare cinema, fatto sta che Pietro inizia male e finisce peggio, nel senso che il male raccontato dal film non cessa all’impovviso, solo perchè, al di là del realismo e della verosimiglianza, allo spettatore bisogna dare la sua buona dose di emozioni positive, visto che paga.
Pietro è durissimo dall’inizio alla fine, perchè l’ambiente e le circostanze in cui si trovano immerse le persone raccontate nell’opera terza del regista nato ad Ancona, ma torinese d’adozione, è duro dalla mattina alla sera, ben oltre la durata di un breve lungometraggio che tenta di raccontarle.
Pietro non si appoggia a un fatto di cronaca, ma in un certo senso ne riassume molti. Nella sua parabola nera descrive il lato oscuro di un contemporaneo inteso come insieme di dinamiche relazionali dominate dalla violenza e dalla malvagità. Che a loro volta si arrampicano spontanee sopra l’emarginazione, l’abbandono degli ultimi, la sofferenza muta di troppe storie della porta accanto.
Il protagonista è proprio Pietro, che vive ai margini della stessa Torino che già in Nemmeno il destino, opera seconda di Daniele Gaglianone, avevamo visto estranea ai luoghi riconoscibili e confortevoli del centro, ma piuttosto filmata nella periferia estrema e post-industriale cara all’autore, dove abita con maggior facilità il disagio, e dove i modelli per raccontare il presente funzionano meglio che altrove, perchè le periferie sono oggi il luogo più abitato nel nostro paese.
Pietro è fragile, debole nel corpo, "non normale", disarmato, e per ciò oggetto di abuso, di crudeltà, proprio da parte di quei tanti deboli che formano il tessuto sociale di gran parte del paese. Branco di cani randagi, nati bstardi o abbandonati anch’essi, tutti raccolti attorno ad una sorta di debolezza omologata, normalizzata. Non come quella di Pietro che si palesa nella camminata, nello sguardo, in ogni suono che emette.
La sua vita è stata sfortunata dall’inizio, da quella maledetta sera in cui doveva nascere, ma c’era traffico perchè c’erano i mondiali di calcio, e l’Italia aveva vinto, e le strade erano piene di gente. Da allora per Pietro è stata una lotta difficilissima, dolorosa, combatttuta sia all’esterno che all’interno delle mure domestiche, perchè il confine è sottile, insufficiente, calcinaccio polveroso.
Pietro è rimasto vivo, più di altri che sono partiti con handicap minori, e la sua coscienza è più lucida e articolata di quella degli altri, suo fratello compreso, che è un povero tossico, ed è anche lui, ovviamente, vittima di una diffusa crudeltà sociale.
La debolezza di Pietro è sfruttata dagli altri, cavalcata come in una lotta tra poveri senza dignità, accolta con favore dagli sciacalli che si muovono negli spazi filmati sempre con maestria dal regista e dai suoi collaboratori fidati (su tutti Gherardo Gossi, il sempre bravissimo direttore della fotografia).
Pietro è un film scomodo, fastidioso, deciso, efficace, un film che parla di una degenerazione collettiva veloce come una massa d’acqua inarrestabile e compatta, che sale piano piano fino a sommergere tutto.
E’ un film girato, fotografato e montato con bravura, interpretato magistralmente da un attore sorprendente, Pietro Casella. Che fa Pietro, appunto, il protagonista di un’opera non allineata, in perfetto stile Gaglianone.
TRAILER
Diventano finalmente tre i lungometraggi di Daniele Gaglianone, uno dei cineasti più interessanti e coerenti del cinema italiano contemporaneo, quello nato con il nuovo millennio e che, nel migliore dei casi, vede i suoi più prolifici rappresentanti giunti al quarto film.
Regia: Daniele Gaglianone; sceneggiatura: Daniele Gaglianone, fotografia: Gherardo Gossi, montaggio: Enrico Giovannone; interpreti: Pietro Casella; Francesco Lattarulo, Fabrizio Nicastro, Carlotta Saletti; produzione: Babydoc film, La fabbrichetta, Gianluca Arcopinto, distribuzione: Lucky Red
