Prey - La caccia è aperta

La premessa appare anacronistica. Se poi consideriamo che si tratta di un horror, potrebbe tornarci in mente la felice stagione degli anni ’70, uno di quei truculenti viaggi alla Cannibal Holocaust. Durante un safari in Africa, una famiglia viene attaccata dai leoni. La guida viene sbranata e Amy, David e Jessica si ritrovano prigionieri nella loro jeep. Il padre Tom (Peter Weller) parte alla loro disperata ricerca.
Nelle intenzioni del regista, Prey non doveva essere solo la storia di un tragico safari: Roodt precisa che il suo racconto si è focalizzato specialmente sul dramma umano che si sviluppa tra la figlia ed Amy, la nuova compagna di Tom. La figlia di lui, Jessica, non accetta infatti la nuova moglie del padre, per quanto questa provi in tutti i modi a compiacerla. Purtroppo è ovvio che tale dramma venga fagocitato dalla comparsa dei leoni, essendo evidente l’incomparabile distanza tra il dramma figlia-che-non-accetta-nuova-moglie-del-padre e leoni-in-caccia-per-sbranare-la-famiglia. Pertanto, la rilevanza a tratti accordata a questo dramma intrafamiliare crea un effetto quasi parodistico, che mette a rischio l’intera credibilità della situazione. Perché, ciò che veramente importa in Prey è l’insidia dei leoni, che si impossessano della scena nel momento stesso in cui compaiono. Nascosti, immersi nella savana, all’improvviso splendenti nella loro ferocia, sono, insieme all’ambiente, il protagonista indiscusso del film.
Tutta la pellicola è giocata sullo spazio, su una dialettica fondamentale tra la prigionia nella jeep, che è la dimensione nucleare del testo, e l’immensità letale della savana, di cui i leoni rappresentano l’essenza, l’espressione più pura ed efferata. Senza bisogno di rievocare La casa, Prey non è certo il primo film a giocare sull’esiguità dello spazio in cui i corpi si trovano imprigionati. Ma, più che un senso di claustrofobia, qui si riesce a comunicare un atavico senso di terrore trasmesso dall’apertura infinita della savana. Per questo la poetica di Prey è forse accostabile ad un prodotto come Open Water, in cui la minaccia, più che provenire dall’esterno o dall’interno (La Cosa carpenteriana vs la mutazione e il virus croneneberghiani) coincide con l’intero spazio circostante: è l’ambiente stesso che assedia il corpo. Com’è ovvio, la descrizione dello spazio diventa allora estremamente rilevante. Ed è da segnalare a questo proposito l’ottimo lavoro svolto sui colori: Prey è un horror particolarmente luminoso, dominato dai toni del bronzo e dell’ocra, da strani cromatismi risultanti dall’incontro del rosso-sangue e del giallo-savana.
A risultare imperdonabili, in Prey, sono, alla fine, la sceneggiatura (la cui credibilità si sfalda nella ricerca di uno scioglimento coi fuochi d’artificio a tutti i costi) e un diffuso autocompiacimento registico che immiserisce l’efficacia della pellicola.
Il problema più vero della pellicola è, quindi, tutto nel suo cedere colpevolmente ad alcuni cliché e a certi stilemi un po’ stinti: al primo assalto dei leoni, per esempio, scatta immediatamente un uso intensivo della telecamera a mano, per dare un’ovvia concitazione all’azione. Fuori tempo massimo, anche la telecamera ‘dagli occhi del leone’, ovvero la visione alterata e in bianco e nero della telecamera che riproduce il punto di vista della belva in agguato. Prey si arrabatta dietro a certi meccanismi ormai arrugginiti, alla ricerca di un effetto che difficilmente riesce a raggiungere lo spettatore più smaliziato.
(Prey) Regia: Darrell James Roodt; sceneggiatura: Darrell James Roodt, Jeff Wadlow & Beau Mauman; fotografia: Michael Brierley (S.A.S.C.); montaggio: Avirl Beukes (S.A.G.E.); musica: Tony Humecke; interpreti: Bridget Moynahan (Amy Newman), Peter Weller (Tom Newman), Carly Schroeder (Jessica Newman), Jamie Bartlett (Crawford), Connor Dowds (David Newman); produzione: Distant Horizon; distribuzione: Eagle Pictures; origine: USA – Sud Africa, 2006; durata: 92’; webinfo: Sito ufficiale
