Prometheus
Mira in alto Ridley Scott, troppo in alto. E letteralmente: quello che avrebbe dovuto essere il prequel di una saga assai fortunata – la sua creatura, Alien – si tramuta in una teogonia ambiziosissima che non si limita a raccontare le origini dell’alieno più cattivo di tutti, ma dell’intera razza umana.
Riallacciandosi, in una corsa smodata all’autocitazione e all’omaggio di altrui film, anche al suo capolavoro Blade Runner, Scott con Prometheus ambisce a tirare fantascientificamente le fila su una serie di tematiche filosofiche e psicanalitiche tra le più ardue. Innanzitutto c’è il diretto erede più del suo Roy Batty che degli automi di Alien: David, interpretato da Michael Fassbender, coprotagonista del film insieme all’inspiegabilmente quotatissima Noomi Rapace, nei panni della scienziata Elizabeth Shaw. Insofferente nella sua gabbia di intelligenza artificiale, a metà tra l’uomo e la macchina, David non esprime la profonda umanità del replicante di Blade Runner, ma non per questo è meno rancoroso nei confronti dei suoi creatori. La sua natura di creazione dell’altrui ingegno costituisce poi il filo rosso della storia: così come gli umani sono sulle tracce dei loro creatori, siamo noi i creatori di David.
Perché la meta della nave spaziale Prometheus su cui si trovano David ed Elizabeth è niente poco di meno che il pianeta su cui pare si trovi la razza aliena che ha concepito il genere umano. Solo che, una volta arrivata, la spedizione troverà che gli unici abitanti rimasti in vita in questo posto sembrano avere un atteggiamento più ostile che paterno.
Eccoci dunque al principe di tutti i problemi: chi siamo? Da dove veniamo? E soprattutto: ma davvero davvero lo vogliamo sapere? Scott prende talmente di petto queste imperiture domande da arrivare a citare – seriosissimamente e con involontario effetto comico – addirittura 2001 Odissea nello spazio, sequenza della stanza da letto, con l’invecchiato Guy Pearce che aspetta di andare incontro ai suoi creatori e – forse – detentori del segreto della vita eterna. Perché non sono solo i replicanti ad esigere dai loro padri più tempo da sottrarre alla morte.
Si ma dove sono gli alien? Ecco appunto, gli alien non ci sono. Non quelli che ricordavamo noi almeno. Il capolavoro del 1979 è citato nell’inquadratura iniziale, nel comparire del titolo sullo schermo, in alcuni immancabili marchingegni , nel messaggio registrato finale che echeggia quelli che, di lì a poco, saranno i resoconti del tenente Ellen Ripley sulle sue (dis)avventure. Senza dimenticare che Prometheus tratta la storia di quell’astronave aliena che segna l’inizio dei problemi del Nostromo in Alien.
Qualche buona trovata c’è pure: una bella sequenza iniziale; il personaggio di David, l’unico simpatico nonostante la cattiveria; una storia a cui non mancherebbe certo il fascino se fosse stata ben sviluppata; l’elegante tocco di Ridley Scott nel dare corpo all’immaginario futuristico. Ma quando un regista che ha creato un mondo come quello di Alien torna, a distanza di più di 30 anni, sulla sua creatura, le aspettative sono ben altre.
Quanto era meglio quando degli xenomorfi non si sapeva nulla, solo che era meglio non incontrarli. E quanto era più commovente – al posto delle riflessioni metafisiche sull’esistenza – l’eroina che da sola salvava gli esseri umani, sempre ignari del suo sacrificio, dagli alieni più perfetti di sempre.
(Prometheus) Regia: Ridley Scott; sceneggiatura: Jon Spaihts, Damon Lindelof; fotografia: Dariusz Wolski; montaggio: Pietro Scalia; musica: Marc Streitenfeld; scenografia: Arthur Max; interpreti: Michael Fassbender (David), Noomi Rapace (Elizabeth Shaw), Charlize Theron (Meredith Vickers), Guy Pearce (Peter Weyland); produzione: Scott Free Productions, Brandywine Productions; distribuzione: 20th Century Fox; origine: Stati Uniti; durata: 124’.