Rachel sta per sposarsi

È un ritorno al cinema di finzione quello di Jonathan Demme che riconcilia con il cinema e con il concorso della Mostra. Il suo Rachel Getting Married, che segue il bel documentario del 2007 su Jimmy Carter (Jimmy Carter Man from Plains), non mostra il fianco ad alcuna critica, convincendo dal primo all’ultimo minuto di proiezione. Bravo l’autore a capire immediatamente le potenzialità della sceneggiatura di Jenny Lumet (la figlia del grande Sidney) e a decidere di portarla in scena interrompendo la lavorazione di un nuovo documentario. Sia la scrittura che la regia sembrano rifiutare l’idea di fiction cercando di indagare il più verosimilmente possibile le mille storie e i tanti intrecci presenti nella vita dei protagonisti.
Kym torna a casa per il matrimonio della sorella Rachel dopo una lunga degenza in un centro di recupero per tossicodipendenti. Non è un rientro facile. La sua fragilità ed il bisogno di restare sempre al centro dell’attenzione rischiano di rovinare la festa e di compromettere i delicati rapporti all’interno del nucleo familiare.
L’amore di Demme per il cinema di Altman e per il suo inconfondibile modo di preservare la narrazione, evitando così che si snaturi a favore di un più semplice e superficiale coinvolgimento del pubblico, sono tracce ben visibili già dai primi momenti. Il regista sembra volutamente non abbandonare lo sguardo documentaristico procedendo sempre con camera a mano, seguendo personaggi e situazioni con naturalezza e semplicità estreme. La lavorazione stessa si è svolta in un clima assolutamente atipico, con musica dal vivo sempre presente, tra cui spiccano le composizioni di Zafer Tawil, ed il direttore della fotografia, Declan Quinn, e la sua troupe ad inseguire gli attori con i loro occhi elettronici. Già dalla lettura della sceneggiatura Demme aveva intuito come solo una tale libertà di ripresa poteva restituire il senso della storia, la sua assenza di focalizzazioni nel tentativo di descrivere la vita dei personaggi come un’unica grande totalità. È un lavoro che indaga rapporti e sentimenti senza prevaricare Rachel Getting Married, lasciando gli eventi giungere a chi osserva in maniera diretta e senza drammatiche esasperazioni. Eppure non uno dei personaggi alla fine risulta privo di spessore o non sufficientemente costruito.
Come spesso accade nelle sue pellicole, Demme (ed anche questo è un ricordo Altmaniano) concede ai suoi interpreti inquadrature che bene sanno raccontare e definire le maschere che portano sullo schermo. Più volte lo sguardo smarrito e disperatamente solo di Anne Hathaway (incanta con la sua prova) occupa lo schermo cristallizzando ed anticipando quella crisi e quei conflitti che l’hanno portata al ricovero forzato e di cui solo a metà film l’autore ci svela conseguenze e retroscena. Sorrisi e commozione accompagnano la proiezione del film sino all’esplosione, anche in questo caso di gioia e malinconia insieme, del matrimonio finale.
Non c’è un elemento, si diceva prima, che denunci qualche debolezza. Al contrario Rachel Getting Married cattura immediatamente e per circa due ore ci porta a condividere i dolori e le gioie dei suoi tanti personaggi. È un film corale, alla Demme. Ancora prima, però, è un grande film che merita senza dubbio una gratificazione tra le più importanti da questo Festival.
(Rachel Getting Married); Regia: Jonathan Demme; sceneggiatura: Jenny Lumet; fotografia: Declan Quinn; montaggio: Tim Squyres; musica: Zafer Tawil, Donald Jerrison Jr.; scenografia: Ford Wheeler; costumi: Susan Lyall; interpreti: Anne Hathaway, Rosemarie Dewitt, Bill Irwin, Tunde Adebimpe, Mather Zickel, Anne Deveare Smith, Anisa George, Debra Winger; produzione: Clinica Estetico, Marc Platt Productions; distribuzione: Sony Pictures Classics; origine: USA; durata: ‘113;
