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Rivisitando gli outlaw in fuga

Pubblicato il 6 maggio 2020 da Giovanni Spagnoletti


Rivisitando gli outlaw in fuga

#iorestoacasaecritico arriva al dodicesimo appuntamento e propone, dopo la sfilza di grandi classici degli scorsi appuntamenti, una nuova cavalcata tra i film in cerca del genere perfetto. Ce ne parla il nostro direttore Giovanni Spagnoletti.

Spigolando in questi giorni di clausura tra le offerte di film su Netflix, ci si può imbattere, tra le migliori di tante veramente scadenti, in un film passato prima al Festival di Cannes e poi a quello di Roma del 2016, e cioè in Hell or High Water diretto dallo scozzese David Mackenzie. Un’opera più che raccomandabile sulla fuga di due outlaw, non veramente dei criminali, più dei reietti da una società più cattiva di loro, scritta dal talentuoso sceneggiatore texano Taylor Sheridan come seconda parte di una trilogia sulla moderna frontiera americana, preceduta da Sicario (2015, diretto da Denis Villeneuve) e poi seguita da I segreti di Wind River (2017, per la regia dello stesso Sheridan). Ma non tanto di questo film d’ambiente rurale, contraddistinto dall’inossidabile mestiere di un eccellente Jeff Bridges o dalla musica di Nick Cave, che vorremo parlare, anche perché su di esso potete qui trovare una bella recensione di Alessandro Izzi (LINK).

Quanto invece ci diverte ricostruire, è la lunga tradizione a cui questa opera fa capo, andando a rovistare indietro nel tempo in qualche vecchio titolo glorioso del cinema americano. Ovviamente la filmografia a riguardo potrebbe essere molto corposa, perciò ci limiteremo a recuperare di essa una qualche isolata gemma, forse un po’ dimenticata, senza alcuna pretesa di una ricostruzione storico-filologica. Ipotizzando allora un immaginario triangolo di film, partiamo alla metà degli anni Trenta in piena Grande Depressione da You Only Live Once (Sono innocente, 1937) di Fritz Lang. Anch’esso rappresenta la seconda parte di una trilogia, quella chiamata “sociale”, inaugurata dal maestro viennese in esilio nel suo primo bel film americano, Fury (Furia,1936) sul tema del linciaggio e conclusa da You and Me (1938), l’unica e sfortunata commedia mai girata da Lang, per altro fortemente influenzata da elementi e temi brechtiani. Pur tratto da uno spunto originale dello sceneggiatore Gene Towne, You Only Live Once ha diversi punti di contatto con il racconto dello scrittore Ben Anderson, anche lui texano come Taylor Sheridan, Thieves Like Us uscito nello stesso anno, il 1937, ed entrambi costituiscono una rivisitazione di fiction della celebre epopea di “Bonnie e Clyde”, conclusasi tragicamente con lo sterminio della coppia fuorilegge nel maggio del 1934 - insomma il tema era fresco e nell’aria. Si tratta di un film, quello di Lang, estremamente duro e drammatico, soprattutto nella sua seconda parte, quando Eddie (Henry Fonda), in procinto di essere giustiziato seppure innocente di una rapina a cui non ha partecipato, per evadere di prigione, diventa a quel punto un vero assassino. Assieme alla moglie incinta (la minuta Sylvia Sidney) che gli rimane fedele nella sventura, vivranno alla macchia e riusciranno a far nascere il figlio che la donna porta in grembo. In procinto di raggiungere il confine e la libertà, Eddie viene però ucciso dalla polizia. La lotta inane contro il fato – uno dei temi centrali della poetica langhiana – si sposa qui a uno stile visivo, ancora inedito a Hollywood, dettato in modo esplicito dal luminismo “espressionista” della precedente tradizione weimariana – un’opera meno nota di quanto dovrebbe, assolutamente da ascrivere alle più riuscite di tutta la filmografia del regista, dalla quale, sembra, siano stati tagliati per lo meno 15 minuti a causa di una violenza, per l’epoca, senza precedenti.

You Only Live Once è spesso considerato dagli storici del cinema un lavoro che anticipa la di appena successiva stagione del grande film-noir, con le sue femme fatale, i detective cinici e disillusi (Sam Spade o Philip Marlowe), la coppia mito Humphrey Bogart & Lauren Bacall, la frequentazione della letteratura hard-boiled, il fortissimo contrasto nella fotografia in b&n, e delle trame senza capo né coda in un contesto (quasi sempre) metropolitano. Come nei due capolavori-modello: The Maltese Falcon (Il mistero del falco, 1941), con Bogart, Peter Lorre e (qui) Mary Astor, splendida opera prima scritta e diretta da John Huston a partire dall’omonimo romanzo di Dashiell Hammett (1930); o ancora The Big Sleep (Il grande sonno, 1946) di Howard Hawks (produzione e regia) tratto invece dall’omonimo romanzo di Raymond Chandler, sceneggiato da William Faulkner (!), Leigh Brackett e Jules Furthman – tutti film celebri, assolutamente da vedere o rivedere in qualunque frangente.

In questo contesto, più dimenticato è invece un altro fulminante debutto alla regia, quello di Nicholas Ray con They Live By Night (La Donna del Bandito,1948), ufficialmente tratto, questa volta, dal romanzo omonimo di Ben Anderson. C’erano voluti più di sei anni da parte della RKO per riuscire a realizzare una sceneggiatura che potesse sfuggire alle maglie censorie del Codice Hays, per cercare di mascherare una certa riconoscibile simpatia nei confronti di una giovane coppia in fuga di colpevoli, con la donna incinta, conclusasi nell’inevitabile morte del marito (il delitto non può pagare...). All’implicita critica sociale che permea la disperazione dovuta alla miseria nell’America della Grande Depressione, Ray, però, aggiunge un tocco che segnala già uno spostamento significativo stilistico verso il cinema moderno degli anni Sessanta: il Kid ingenuo e sbruffone, Arthur ‘Bowie’ Bowers (Farley Granger), assurto mediaticamente a leader di una gang rurale, pericolosa ma abbastanza scalcinata, di rapitori di banche, sembra già il fratello di Michel Poiccard (Jean‑Paul Belmondo) in A bout de souffle (Sino all’ultimo respiro,1960) di Jean-Luc Godard, il film manifesto della Nouvelle Vague francese. Infatti, è descritto con un’aura di disperato romanticismo e un soggettivismo esplicito, lontano dal volere oggettivo del Fato come in Fritz Lang. È questo il tratto espressivo e stilistico di tutta la prima parte della carriera di Nicholas Ray, la ricerca di un lirismo poetico dentro la miseria dell’esistente come in modo esemplare appare in un altro capolavoro di poco successivo, On Dangerous Ground (Neve rossa, 1951), un’altra fuga di un giovane e infelice ribelle, film però costruito sulla figura dell’inseguitore, il poliziotto cattivo Robert Ryan redento dall’esperienza traumatica della caccia all’uomo (e dall’amore per Ida Lupino, la sorella cieca dell’omicida).

Facciamo un salto di circa 25 anni e arriviamo ad una seconda trascrizione del romanzo di Ben Anderson, al remake della metà dei Settanta a firma di uno dei massimi registi del cinema americano del secondo novecento, Robert Altman. Incastonato tra due gemme purissime come The Long Goodbye (Il lungo addio, 1973), basato sul romanzo omonimo (1953) di Raymond Chandler con un indimenticabile Elliott Gould, e il corale e tecnicamente rivoluzionario Nashville (1975), They Live By Night (Gang, 1974) forse può sembrare un’opera secondaria nella filmografia del sommo regista di Kansas City. Ma non lo è. L’ambientazione si sposta dalla California al Mississippi anche se l’epoca e la trama di base restano la stessa, il 1936/7 con la Grande Depressione e la storia di una banda di rapinatori di mezza tacca, la plastica fotografia in bianco e nero di George E. Diskant diventa il colore tenue e pastello di Jean Boffety, lo stile tutto sommato classico di Ray lascia il posto a zoom, ralenti e un esplicito disinteresse per le scene d’azione e spettacolari. All’occhio entomologico di Altman, in una storia di poveri e di miseria vista con un marcato distanziamento e senza pathos apparenti, interessano gli interstizi narrativi tra le rapine, l’avanzare della società dei consumi dentro una condizione di miseria (non c’è quasi scena a cui non si fa riferimento o si veda la Coca cola) o il commento sonoro dettato da un tappeto di trasmissione radiofoniche, spot pubblicitari e discorsi del Presidente Roosevelt. Solo nella sequenza finale in cui la vedova Keechie (Shelley Duvall) con il figlio in seno abbandona il luogo dove il suo uomo Bowie (Keith Carradine) è stato trucidato dalle forze dell’ordine (l’unica scena veramente d’azione e forte di tutto il film), salendo le scale di una stazione, Altman lascia trapelare allo spettatore, per un attimo, il suo punto di vista pessimista e la sua commozione. Una chiusa magnifica.


Il discorso su il genere dei banditi in fuga, qui iniziato, potrebbe continuare ancora e forse lo riprenderemo a partire da un altro film visibile su Netflix The Highwaymen (Highwaymen - L’ultima imboscata, 2019) di John Lee Hancock, con protagonista un crepuscolare Kevin Costner, una sorta in Bonnie and Clyde (Gangster Story, 1967) al contrario – ma l’opera di Arthur Penn, siamo seri, era di un altro livello.


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