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Roma 2015 – Incontri ravvicinati: William Friedkin e Dario Argento

Pubblicato il 20 ottobre 2015 da Antonio Napolitano


Roma 2015 – Incontri ravvicinati: William Friedkin e Dario Argento

“Stasera parleremo di film di genere”. Esordisce così il direttore della Festa del Cinema di Roma, Antonio Monda per presentare i due ospiti d’onore per la sezione Incontri ravvicinati della serata del 19 ottobre: William Friedkin e Dario Argento. I due, si conoscono e si stimano da anni ed entrambi, come da format classico di Monda, devono scegliere delle sequenze dei film dell’altro per mostrarle al pubblico. Le scelte ricadono, ça va sans dire, sui loro rispettivi capolavori: Profondo Rosso e L’esorcista.

Cosa ammira ognuno di voi del cinema dell’altro?

William Friedkin: Non si può rispondere a questa domanda. È come se mi chiedessi perché ti piace Rembrandt o Michelangelo. Dario Argento è un grande maestro e la sua opera deve essere apprezzata nell’insieme. Io ammiro il lavoro di Dario e lo osservo come un’opera d’arte moderna. Profondo Rosso è stupendo. Quella sequenza ripresa da strane angolature, con la musica che cresce gradualmente, tutto comunica una grande paura che diventa scioccante. Per me ha lo stesso effetto di Goya, di Caravaggio. Gli altri registi usano gli effetti speciali per spaventare, a Dario basta il montaggio e la colonna sonora.

Dario Argento: Bill è un gigante. Ha fatto solo capolavori nella sua vita da The French Connection a L’esorcista che nessuno è mai riuscito ad eguagliare.

Cosa hai imparato dal lavoro dell’altro?

W.F.: Il suo lavoro è unico. Nessuno ha mai lavorato come lui, perché Dario segue la sua ispirazione. Mentre dirige, so che segue anche la sceneggiatura, ma a lui interessa catturare idee attraverso l’istinto come un pittore impressionista. Questo ho imparato da lui: non preoccuparsi troppo della sceneggiatura, ma imparare a lasciarsi andare.

D.A.: Io invece avrei voluto avere l’energia che Bill riesce a sprigionare dai suoi film. Ma non solo dal cinema. Bill ha fatto di tutto, anche l’opera lirica e l’ha fatto sempre al meglio. Vorrei tanto imitarlo proprio in questa sua forza.

Cosa ti spaventa di più? Le tue paure sono riflesse nei tuoi film?

D.A.: Molte cose del mondo di oggi mi spaventano ma le paure che sono nei miei film, sono paure più complesse, che vengono dall’inconscio, sono freudiane, sessuali. E questo spiega perché i miei film hanno avuto successo e sono diffusi in tutto il mondo, perché sono paure universali.

W.F.: La cosa che a me più spaventa è il traffico di Roma. (Con questa battuta, Friedkin si guadagna l’ovazione della sala)

Bill, sei passato alla storia per i tuoi inseguimenti, che hai definito l’essenza del cinema.

W.F.: In realtà ho girato solo tre o quattro inseguimenti. Comunque sì, gli inseguimenti sono la forma pura del cinema, nascono con il cinema muto. Basti pensare a Buster Keaton, maestro di cinema puro, che faceva un cinema senza effetti speciali, rischiando la vita. E su quel tipo di inseguimenti, si possono combinare varie immagini generando una forte suspense in un crescendo continuo che dà vita al thriller. La suspense non ha bisogno di dialoghi, basta la musica e il montaggio. Inoltre, gli inseguimenti sono solo cinematografici. Non si possono rappresentare in pittura, a teatro o in nessun’altra forma d’arte.

D.A.: Gli inseguimenti di Bill sono straordinari. Da The French Connection a Jared e quando li girava non usava effetti speciali come si fa adesso. Erano tutti scontri veri.

Dario, ci puoi parlare della tua esperienza di co-sceneggiatore insieme a Bernardo Bertolucci per C’era una volta il West? Perché Leone scelse proprio voi?

D.A.: Penso perché eravamo giovani. Sergio, che aveva la dote di scovare talenti come pochi, aveva per la prima volta a che fare con il ruolo di una protagonista femminile e non sapeva come fare; anche perché forse era pure misogino! E allora chiamò me e Bernardo che eravamo giovani e avevamo uno sguardo più coinvolto sul mondo e sulle donne.

W.F.: Il cinema italiano è il mio preferito. Amo Leone, Rosi, Rossellini, Pasolini, Scola. Purtroppo devo dire che a differenza del pubblico, pochi critici amano il lavoro di Dario, perché non lo prendono sul serio, non capiscono la sua arte.

Bill, tu hai lavorato anche con Hitchcock?

W.F.: Sì, sono stato scelto per girare un episodio per la serie The Alfred Hitchcock Hour. Vi racconto un aneddoto divertente. Un giorno ero al lavoro e vestivo in maniera molto casual con una maglietta normalissima e si presenta Hitchcock. Mi avvicino per salutarlo e ringraziarlo per avermi scelto, ma lui mi porge la mano come se gliela dovessi baciare e mi rimprovera: “I nostri registi si presentano sempre in giacca e cravatta”. Io credevo che era una battuta, ma lui si volatilizzò senza nemmeno aspettare una mia replica. Anni dopo durante una premiazione per The French Connection, dove era presente Hitchcock, appena lo vidi, visto che stavo indossando lo smoking, mi avvicinai e gli chiesi “Sono vestito bene questa volta?”

Parliamo de L’esorcista.

D.A.: L’esorcista è un film gigantesco. Ha terrorizzato intere generazioni e continuerà a farlo.

W.F.: Io non l’ho mai considerato e non lo considero un film horror. Io non sono in grado di fare horror, quelli li fa Dario che è un maestro. Il mio è un film sui misteri della fede. La vita è piena di misteri, anche l’amore è un mistero. Ho fatto questo film da credente e se continua a durare nel tempo, è proprio perché non l’ho fatto da uomo cinico ma documentandomi su ciò che era successo e studiando i diari di medici, infermieri, sacerdoti. Il film è tratto da una storia vera accaduta ad un quattordicenne nel 1949 e da cui a breve la televisione farà un documentario. Il ragazzo è ancora vivo, ma non ricorda nulla di ciò che accadde.

L’ultima domanda è di Friedkin per Argento e non è per nulla una domanda scontata:

Dario hai mai pensato al suicidio?

W.A.: Nella mia autobiografia che ho impiegato due anni per scrivere, ne parlo in maniera sincera. Stavo lavorando a Suspiria, ero circondato dal successo, non so perché ma ebbi il pensiero di farla finita. Mi aiutò un amico medico, che mi consiglio di sbarrare il balcone con mobili pesantissimi. Per cui se avessi avuto un attimo di smarrimento, la difficoltà dello spostare quei mobili, mi avrebbe fatto passare il desiderio di suicidarmi.


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