ROMANZO CRIMINALE

Sicilia mafia, Napoli camorra, Calabria ‘ndrangheta, e Roma banda della Magliana. Tanto tempo fa. Con questo nome musicale che certi romani pronunciano fieri, quasi soddisfatti, a bocca spalancata per la A, e una bella spinta sulla B della prima parola. Altro, nell’immaginario collettivo, da quelle altre che altro sono, perché questa è banda, prima di tutto, di gangster, con inizio, apice e crepuscolo. Di criminali figli del proletariato cacciato dalla città, di ignoranza affamata, assetata di riscatto. Banda padrona del proprio coraggio, della ribellione istintiva, della propria incoscienza. Peggio gioventù cresciuta in un pezzo fondamentale di periferia. Storia di vicoli e pistole, di sangue e di coltelli: mito da custodire gelosamente e se il “canaro” degli anni a seguire vuole spazio, lo faccia con discrezione e in funzione di un mito che c’è già. Magliana cemento di quel confine rotondo che gli anni cinquanta, sessanta e poi settanta, cantano con le voci più belle del cinema italiano; realtà di polvere, ferraglia arrugginita e fogne aperte che Pasolini fa mito col suo pensiero. Banda della Magliana tócco di quella Roma dar core grosso pe ll’amichi, degenerazione del Fattaccio di Vicolo der Moro, dei tantin d’ammazzamento che annotava il Belli. Ma anche silenzioso, nascosto, snobbato tardo secondo dopoguerra italiano. Troppo intriso di fiume e di quartiere, di bische e soprannomi. E invece era Nazione e vicolo, motocicletta e treno, periferia ed istituzione: roba da romanzo direbbe Carlo Lucarelli, con primo piano giottesco e mani giunte sotto occhi fissi e buffi. Bel tronco da scolpire, abbondante materia per letteratura e altro, ottimo mix di cronaca e leggenda: meglio di una rissa, di un incidente sulla carreggiata opposta. Ed eccolo il romanzo, intelligente e appassionante, più nero che giallo, perché se la benzina è il thriller, il motore che fa scorrere le pagine non è la ricerca dell’assassino ma l’epopea, l’Italia in movimento ripresa dai sampietrini e dalle soggettive gergali e dialettali del Libanese, del Freddo, e del Dandi; l’affresco corale con comprimari, sbirri e delinquenti a giocare la loro partita intrecciandola con quella del Paese. Lo scrive un magistrato, De Cataldo, che stappa dalla cronaca nera storie e personaggi, narrando un’epica contemporanea nel rispetto delle regole, come strumento per agganciare il lettore e parlargli di una complessità che forse, questo, neanche s’aspettava. Romanzo criminale è Iliade italiana degli anni ‘70 e ’80, vorace, terribile. Contribuisce allo sviluppo di un filone storico-criminale che tiene sempre maggior conto di carte processuali, rapporti di polizia, cronache giudiziarie, intrigo politico, corruzione e controllo del territorio. I meccanismi in gioco richiamano sempre più alle situazioni reali e lo confermano i romanzi di Carlotto e Rea, dove la malavita nordestina diventa protagonista, dove gli eventi cruciali della cronaca napoletana si trasformano in perno narrativo per far girare il racconto. Il romanzo è letto e amato, e il motivo sta là in mezzo: tra il respiro affannato dell’uomo, il mito del male e la cornice del quadro. Il film, in tempo di reality e di buchi della serratura sempre più forzati (di una porta spesso già sfondata), è la più logica delle conseguenze. Edward Murrow e Jim Braddock denunciano l’importanza del reale dentro il viaggio, le questure e i distretti del piccolo schermo significano qualcosa e la domenica sera di Lucarelli conferma il successo della formula: romanzo storico che acchiappa, fa rabbrividire ed indignare fino ai titoli di coda, o alla pubblicità, perché due tasti più sotto c’è Mughini, piegato su se stesso e colorato, che ammaestra gli adolescenti in sala e gli operai sul divano con frecciate al tecnico, al calciatore, al presidente. Anche loro in lotta dentro la storia. E la pausa dall’impegno è gradita e pudica; i frammenti di osceno raccontati con la suspence il compitino a casa da svolgere sbuffando. E’ un reale/irrale terribile e appena svelato, fatto annusare come documento in dissolvenza, come tesoro in ricaduta negli abissi dopo l’emersione tra i bollori della fiction. Mostro marino testimoniato da pescatori ma mai filmato da nessuno. Il romanzo lo adopera e lo nasconde, lo fa mito in mezzo al mito e l’impegno civile di cui il Placido brizzolato e ben piazzato dice di aver grossa considerazione dura il tempo di una coscienza pulita e autoriale. Romanzo criminale è scritto dal duo Rulli Petraglia: i maestri del romanzo cinematografico sulle Italie buone e cattive, quelli che le cose sporche le dicono ma le dicono in mezzo agli amori dei loro attori ruba scena e le confondono con la lirica e la regia coinvolgente e innocua dei loro collaboratori. Specialmente, e l’ultimo Giordana lo dimostra, quando si rivolgono al presente. Il risultato è una denuncia sottovoce e velleitaria dentro un prodotto commerciale spesso apprezzabile e apprezzato. La sensazione è che se gli anni settanta furono così complessi e cruciali, ormai i giochi sono fatti e a rovesciare il pentolone del presente uscirebbero fuori metastasi così agghiaccianti che è meglio parlarne tra trent’anni, quando la gente avrà voglia di sentire un bel romanzo. La Guzzanti, per motivi forse personali o addirittura edipici, ha detto di più ed ha oscurato la massoneria, gli anni di piombo e la bomba in bianco e nero della stazione di Bologna. Gli “eroi” di romanzo criminale sono fascinosi e respirano come i bravi ragazzi di Scorsese, sono sempre più bravi e stanno diventando il cinema italiano. Ricorderemo le loro moto, le loro donne e il loro coraggio dickensiano prima che l’uso che lo stato ha fatto di loro. Forse perchè la gente ha più bisogno di miti che di verità.
[Settembre 2005]
Regia: Michele Placido,sceneggiatura: Stefano Rulli, SandroPetraglia, Giancarlo De Cataldo,montaggio: Esmeralda Calabria,fotografia: Paolo Buonvino,interpreti: Pierfrancesco Favino, Kim Rossi Stuart, Claudio Santamaria, Anna Mouglais, Jasmine Trinca, Gian MarcoTognazzi,musica: Paolo Buonvino,produzione: Chattleya,distribuzione: Warner Bros,origine:It/Fr/Gb,anno: 2005
