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Savage Grace

Pubblicato il 20 giugno 2008 da Fabiana Proietti


Savage Grace

L’esistenza infelice, seppure vissuta tra agi e ricchezze, di un’importante famiglia americana, quella dei Baekeland, eredi dell’inventore della bachelite, Leo, fino all’omicidio della madre, Barbara Daly-Baekeland, commesso dall’unico figlio della coppia, Anthony. Celebre caso di cronaca nera dell’America bene, il ménage familiare di Barbara e Tony sconvolge l’opinione pubblica statunitense e viene presto raccontato in un libro che per i temi dell’omosessualità, della relazione incestuosa di natura edipica tra madre e figlio, attira subito l’attenzione di Tom Kalin, già autore di Swoon, pellicola cult del cinema queer. Che il regista sia quindi già avvezzo ai temi trattati rende ancor più sorprendente la grossolanità di Savage Grace, la pruriginosa ottica adottata nel raccontare questi personaggi, la totale vacuità, insomma, di una pellicola tanto patinata quanto sterile.
Non c’è in realtà alcuna grazia nel film di Tom Kalin, nessuna levità di tocco impressa a volti e luoghi, come dimostrano i bei paesaggi accarezzati dalla macchina da presa con esiti da cartolina, né in quei corpi che, a dispetto dell’evidente bellezza, si fanno grevi sotto lo sguardo pesante del regista. Così come manca, del resto, un autentico lato selvaggio, nell’accezione di una vitalità brutale e inarginabile, incapace di arrestarsi di fronte alla rigidità delle regole sociali.
Julianne Moore torna a vestire i panni di una sfortunata moglie americana di metà secolo. Ma a differenza di Lontano dal paradiso e The Hours, la sua interpretazione non trova solidi appoggi in una sceneggiatura approssimativa, che procede per piccoli e sempre più decadenti tableaux vivants, dove la leziosità è direttamente proporzionale all’incapacità di costruire un racconto che vada al di là di brevi e isolati quadretti.
Savage Grace è una pellicola piena di fratture (e non ellissi!) tematiche e stilistiche, che nell’ansia di portare a termine l’obiettivo prefissato - raccontare, cioè, il lungo arco biografico dei Baekeland, dalla nascita del figlio Tony al matricidio da lui commesso - smarrisce poi per strada la fluidità del racconto e con essa il senso più profondo del film, non riuscendo mai a cogliere realmente l’essenza del rapporto tra madre e figlio, né il progredire della malattia mentale in Tony, personaggio sostanzialmente sfocato e apatico per tutta la durata della pellicola.
Le cesure tra i sei atti del percorso di vita di Barbara e Tony - tra l’America degli anni 40, la Parigi dei ’50, la Spagna dei ’60 e infine il luttuoso epilogo londinese ambientato nei ’70 - mangiano l’anima di un film che finisce per essere piatta illustrazione di un rapporto morboso ed esclusivo, confinato alla sfera del grottesco dalla mancanza di un adeguato approfondimento psicologico.
Barbara e Tony rimangono infatti figure piatte e bidimensionali, la cui evoluzione nel tempo pare affidata esclusivamente ai meticolosi cambi di look, nonostante molti dialoghi finto poetici tentino a più riprese di spiegarne le azioni. Ma sono conversazioni e monologhi verbosi e artefatti, gravati da una recitazione cristallizzata su un atteggiamento imbambolato e assente per i due protagonisti maschili, Anthony e Brooks, e su un’espressione di costante vizio per la Barbara di Julianne Moore, mascherata con capelli gonfi e vestiti sgargianti da ricca borghese ninfomane e depressa. Il suo personaggio è in realtà anche l’unico a suscitare qualche interesse: l’aura divistica della Moore riesce da sé a restituire l’essenza di questa donna incostante, capricciosa e annoiata, ma soltanto a tratti, e certo in virtù del suo talento istintivo di attrice di razza anziché per una progettualità insita nella pellicola.
La stretta adesione alla “realtà dei fatti” non è più accettabile come alibi per il fallimento di una narrazione il cui unico scopo pare quello di épater les bourgeois, indugiando con compiacimento su incesti e rapporti a tre. La morbosità degli stessi contenuti non giustifica la volgarità espressiva di una pellicola che si dimostra proprio come i parvenu che a conti fatti condanna: vistosa e pacchiana ma con la presunzione di essere chic e, soprattutto, di essere cinema d’autore.
Che Savage Grace sia stato selezionato per la Quinzaine des Réalisateurs della scorsa edizione di Cannes non è sorprendente: è raggelante.


CAST & CREDITS

(Savage Grace); Regia: Tom Kalin; soggetto: tratto dall’omonimo libro di Natalie Robins e Steven M.L. Aronson; sceneggiatura: Howard A. Rodman; fotografia: Juan Miguel Azpiroz ; montaggio: John F. Lyons; musiche: Fernando Vélasquez; scenografia: Victor Molero; costumi: Gabriela Salaverri e Didier Ludot; interpreti: Julianne Moore (Barbara Daly-Baekeland), Stephen Dillane (Brooks Baekeland) Eddie Redmayne (Anthony Baekeland) Elena Anaya (Blanca); produzione: Monfort Producciones, Killer Films, Celluloid Dreams Productions, ATO Pictures, 120 dB Films, A Contraluz Films, Videntia Frames; distribuzione: BIM; origine: Usa/Spagna 2007; durata: 97’; web info: sito del distributore


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