Sette anime

Continua la trasferta americana del nostrano Gabriele Muccino. A due anni da The pursuit of happyness, il regista torna a dirigere Will Smith impegnandolo nuovamente in un ruolo drammatico.
Il film si apre con una telefonata al numero d’emergenza in cui Ben Thomas (Will Smith) dichiara di volersi suicidare. Segue un lungo flashback che ricostruirà le vicende che lo hanno portato a tale decisione. Scopriamo allora Will Smith nei panni di un esattore che, inspiegabilmente, sceglie se dilazionare o meno i debiti che le persone più diverse hanno nei confronti del fisco.
L’apparente assenza di una logica che governi questi atti, più che creare un produttivo e intrigante alone di mistero intorno alle azioni del protagonista - il quale lascia la sua splendida casa al mare per trasferirsi in uno squallido motel e aggirarsi per ospedali e cliniche – contribuisce a far regnare sovrana una confusione narrativa che accompagna non solo la difficoltà a (in)seguire il protagonista nei suoi gesti, ma pure esaspera i toni, invece di costruire un progressivo avvicinamento al protagonista e al suo dolore. Quando cominciano a venir fuori i primi elementi chiarificatori di quello che dovrebbe essere, nelle intenzioni degli autori, il progressivo percorso di disvelamento del protagonista, della sua identità, del suo passato e quindi della sua “missione” - pure se al primo indizio (le allucinazioni/incubi) gran parte del (mancato) mistero è scoperto- il film imbocca la strada dell’innamoramento tra Will Smith e Rosario Dawson. Se appare frettolosa la sequenza in cui lei, all’iniziale fastidio per un esattore delle tasse che si intrufola nella sua proprietà privata (dopo averla spiata quando era in ospedale), sostituisce - non appena lui le promette diverso tempo per recuperare il suo debito - un sorriso imbarazzato da adolescente affascinata, restano comunque la loro cena a lume di candela e soprattutto il loro avvicinamento intimo le scene più riuscite del film.
Anche nelle battute finali, quando tutte le domande (in realtà ben poche rimangono insolute fino alla fine) trovano una risposta, non sembra possibile che si inneschi nessun tipo di meccanismo di empatia col protagonista logorato dal senso di colpa e dall’amore per il prossimo, desideroso di donare possibilità a chi sembra non averne, esattamente come lui ha mandato a monte la sua vita felice.
Ancora una volta Muccino si confronta col dramma e mette in campo una posta ancora più alta che in The Pursuit of happyness, dirigendo una storia nella quale facciamo fatica a credere. Ma il film non trova la sua debolezza nella vicenda ‘assurda’ che mette in scena - come certa critica americana ha scritto - piuttosto nella costruzione di questo protagonista che sembra quasi un divino benefattore (sensazione amplificata dalla scelta della sue sette anime, casualmente di astrazioni sociali e culturali molto diversificate tra loro) di cui tuttavia ci arrivano solo, come in un asettico elenco (quello urlato in apertura), i gesti a volte più eclatanti, altre volte più in sordina, che vanno a comporre il racconto annunciato dalla sua voce over (che non fa quasi mai più capolino, aumentando la confusione narrativa). L’interpretazione di Will Smith è più che convincente, vista la capacità espressiva che gli permette di nascondere, dietro un sorriso, il sospetto di un dolore e un terrore taciuto, ma l’originalità (non l’assurdità) di questa storia che dovrebbe parlarci di amore e senso di colpa, si riduce al susseguirsi delle sue azioni, senza che il dramma si nutra di un vero climax, rimbalzando da un’anima all’altra (alcune solo intraviste), fino al finale già annunciato.
Muccino sceglie di seguire il suo ormai attore feticcio usando spesso la camera a mano e giocando con la messa a fuoco che ci fa scoprire un mondo insieme nitido e appannato, dai colori bluastri della disperazione a quelli solari della rinascita amorosa, convincendo molto meno quando tenta registri visivi diversi (si vedano le sequenze delle allucinazioni e soprattutto la sequenza velocissima che apre al titolo di testa) o quando si fa palese una (zoppicante) ricerca estetica (le mani che si cercano). Il fatto che anche qui, come in La ricerca della felicità, Will Smith non smette di trovarsi alle prese con un congegno meccanico da riparare (lì per dare un futuro a se stesso e al suo figlioletto, qui per donare il sorriso alla donna che ama) ci conferma idealmente come Muccino prosegua in America, così come ha fatto in Italia, a mettere in scena storie di uomini alle prese con le proprie responsabilità di fronte a una vita familiare in frantumi e di fronte ad una società che ha perso i valori in cui vale la pena credere. In Seven pounds, l’uomo e le sue crisi sembrano fin troppo schiavi di un meccanismo narrativo in cerca della costruzione ad effetto che lo riduce da corpo (di dolore) tangibile (la storia di Ben è anche e soprattutto la storia del suo corpo) a esecutore di un destino che acquisterebbe senso e importanza quanto più il film (non) riesce ad ammantare di mistero le sue ragioni e il suo dispiegamento.
(Seven pounds); Regia: Gabriele Muccino; sceneggiatura: Grant Nieporte; fotografia: Philippe Le Sourd; montaggio: Hughes Winborne; musica: Angelo Milli; interpreti: Will Smith (Ben Thomas), Rosario Dawson (Emily Posa), Woody Harrelson (Ezra Turner), Barry Pepper (Dan); produzione: WILL SMITH, JAMES LASSITER, STEVE TISCH, JASON BLUMENTHAL, TODD BLACK E MOLLY ALLEN PER OVERBROOK ENTERTAINMENT, ESCAPE ARTISTS, COLUMBIA PICTURES, RELATIVITY MEDIA; distribuzione: SONY PICTURES; origine:Usa, 2008; durata: 125’
