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Sex and the City

Pubblicato il 29 maggio 2008 da Fabiana Proietti


Sex and the City

Dopo il finale della sesta e ultima stagione della serie cult della HBO era difficile rimettere mano alle avventure delle quattro single Manhattan-addicted. Perché dopo anni di girandole sentimental-sessuali di ogni tipo, centinaia di Cosmopolitan bevuti e migliaia di passi percorsi lungo i marciapiedi di New York, in equilibrio sui vertiginosi tacchi di Manolo Blahnik, ognuna delle protagoniste aveva finalmente trovato non tanto un uomo con cui dividere la vita – in una parziale smentita dell’assunto della serie – ma soprattutto una maggiore stabilità emotiva, arrivando ad ammettere che “nella vita la relazione più importante è quella che si ha con se stessi”.
Sex and the city riparte da qui, da questa sopraggiunta maturità che la vita ha finito con l’imporre alle scatenate protagoniste, determinando un fondamentale cambiamento rispetto al modello televisivo: il Sex, ma anche la City, hanno un ruolo assai meno preponderante rispetto al serial, e se il primo viene per lo più relegato alla sfera relazionale, a monitorare l’andamento del rapporto di coppia, New York, la quinta protagonista ‘morale’ del serial, viene ridotta a sfondo, di classe e necessario certo, ma pur sempre sfondo.
Per contro, è la moda a salire di rango: il Sex and the City cinematografico si rivela un tripudio di vestiti meravigliosi, liturgia sacra dell’haute couture, i cui sacerdoti hanno i nomi di Louis Vuitton, Prada, Carolina Herrera e di quella Vivianne Westwood a cui Carrie renderà omaggio indossando il favoloso e fiabesco abito nuziale.
La costumista Patricia Field dà il meglio di sé nelle tante trascinanti sequenze che sembrano costituire un vero inno al regno delle divinità pagane della moda: assieme a una Sarah Jessica Parker perfettamente a suo agio nel ruolo ormai consolidato di fashion icon, decanta sia il kitsch vintage degli anni ‘80 al ritmo di Walk this way degli Aerosmith, sia la classe immortale dei grandi maestri.
Costumi incantevoli, musiche più fragorose: lasciando libero estro a ciò che il piccolo schermo imbrigliava, il distacco dal serial della pellicola è tutto all’insegna di questa dimensione “bigger than life” che arriva a trasformare il motivetto chiave della serie, quel breve jazz da locale del Village, in una più altisonante musica da orchestra che accompagna la veduta nottrurna del ponte di Brooklyn sui titoli di testa.

Ma oltre alla riuscitissima celebrazione della cultura pop portata alla ribalta già dal serial, questo capitolo su grande schermo ha il merito di esibire i meccanismi di successo della serie, ponendosi come esperimento autoriflessivo in grado di svelare apertamente i legami del prodotto televisivo con la grande tradizione della commedia sofisticata americana. Il film, infatti, non aggiunge nessun nuovo elemento alla versione televisiva sottolineando, però, proprio per questo, la dimensione cinematografica già insita nella serie, dando così l’impressione che il grande schermo non faccia che riappropriarsi di un prodotto sottrattogli per errore.
Abbiamo più volte riflettuto sui legami intrattenuti dal serial – specie col passare delle stagioni – con la grande tradizione sentimentale della Hollywood d’oro e se tali “vincoli parentali” rimanevano solo accennati nella serie, la pellicola non fa che ingigantire i nessi con le protagoniste del cinema che fu, e se Carrie, nella malinconia da single, ma anche nella radicata paura a lasciarsi andare al sentimento, riecheggia la deliziosa Holly di Colazione da Tiffany – con la passione per i gioielli sostituita da quella per le scarpe - Miranda e Samantha incarnano la donna volitiva e “con i pantaloni” impersonata tante volte da Katherine Hepburn, mentre nella dolcezza di Charlotte alberga lo spirito di Doris Day, prima e unica fidanzata d’America.
Ma è soprattutto nella altalenante e burrascosa relazione di Carrie con Mr. Big che la natura dell’operazione trova la sua esplicitazione maggiore: il loro happy end rimandato, negato e infine ottenuto con la citazione da moderna Cenerentola – la domanda di matrimonio fatta non con un anello ma con una elegantissima scarpa blu corredata di diamanti – dimostra come il loro amore non sia altro che contemporaneo prosieguo di una guerra dei sessi che percorre la commedia americana da oltre cinquanta anni e che prima di questo gioiello televisivo e ora cinematografico sembrava essersi smarrita.
Che non si guardi allora a Sex and the City soltanto come celebrazione per estimatori del serial; né, d’altro canto, come a una riproposizione citazionista delle commedie del bel cinema di una volta. Quella di Carrie, Charlotte, Miranda e Samantha è di certo una rilettura pop della sophisticated comedy, operazione di decostruzione e ricostruzione di quell’universo così netto e identificabile, ma è soprattutto l’unica commedia sentimentale possibile oggi, che flirtando maliziosamente con i capisaldi del genere, ma consapevole della propria identità, arriva a guadagnarsi un proprio posto al sole.


CAST & CREDITS

(Sex and the City) Regia e sceneggiatura: Michael Patrick King; fotografia: John Thomas; montaggio: Michael Berenbaum; musiche: Aaron Zigman; scenografia: Jeremy Conway; costumi: Patricia Field; interpreti: Sarah Jessica Parker (Carrie Bradshaw), Kim Cattrall (Samantha Jones) Cynthia Nixon (Miranda Hobbes) Kristin Davis (Charlotte York) Chris Noth (Mr. Big) Jennifer Hudson (Louise); produzione: Darren Star per HBO Films, Sarah Jessica Parker, Michael Patrick King, John P. Melfi, New Line Cinema; distribuzione: 01 Distribution; origine: USA 2008; durata: 145’; web info: sito del distributore italiano


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