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SHUTTER

Pubblicato il 5 luglio 2006 da Matteo Botrugno


SHUTTER

A volte ritornano. Per amore o per vendetta. A volte ritornano per entrambe le ragioni. E’ questo il pretesto per mettere su un horror, uno dei tanti in questa caldissima estate in cui il povero spettatore si rifugia al cinema in cerca di brividi (di paura). E’ necessario premettere che questo lavoro, ad opera di due registi emergenti, i tailandesi Banjong Pisanthanakun e Parkpoom Wongpoom, non aggiunge assolutamente niente di nuovo nel panorama di un genere che negli ultimi anni, oltre a prendere piede in maniera considerevole in oriente, riesce ad arrivare spesso e volentieri nelle sale italiane e che, altrettanto spesso, ispira lavori che superano per qualità e tecnica le deludenti uscite statunitensi.
Un fotografo e la sua fidanzata investono una ragazza e, impauriti, fuggono via. Sin dai primi fulminanti cinque minuti, si rimane letteralmente attaccati alla poltrona nel seguire le vicende dei due giovani, che vedono, nelle loro stesse foto, il fantasma della ragazza investita, in realtà spettro di un passato creduto definitivamente sepolto.
Strani suicidi, allucinazioni, fotografie che nascondono storie di dolore e sofferenza: non manca niente in questo film, di cui sveleremo solo questi pochi tratti per non comprometterne la visione. Le influenze della nuova ondata horror sono sempre le stesse: da una parte si possono trovare in Shutter degli evidenti riferimenti a Ringu (e di conseguenza anche al bel remake di Gore Verbinski), sia nell’inquietante figura di Natre, sia per quanto riguarda le ‘presenze’ nelle fotografie; d’altra parte, i due registi si ispirano a Il sesto senso, anche se Shutter finisce più con l’essere raffrontato a The Eye, lavoro che senz’altro aveva ereditato in maniera più convincente gli insegnamenti di Shyamalan.
Appurato quindi che la messinscena è fortemente debitrice delle influenze dei film sopraccitati, che possono essere considerati i capisaldi del cinema horror degli ultimi dieci anni, bisogna ammettere che questo Shutter è un’opera di grande livello e perfettamente funzionale al suo scopo. In un periodo in cui dagli States giungono thriller psicologici e horror privi di idee e di situazioni interessanti, in cui gli autori si divertono a far accadere tutto nell’ultimo quarto d’ora di film, diventa necessario volgere lo sguardo a queste piccole perle. Se in Europa abbiamo dovuto attendere un film inglese, The descent, per poter assaporare di nuovo tensione e suspense, dall’oriente continuano ad arrivare lavori che, anche quando non toccano alti livelli di originalità, riescono comunque ad essere coinvolgenti.
Pisanthanakun e Wongpoom lavorano in maniera intelligente, lasciando poco spazio agli effetti speciali e insistendo in gran parte sulla suggestione delle immagini fotografiche, in cui si avverte maggiormente l’affascinante binomio tra realtà e finzione, sull’accuratezza del make-up, nella scelta di una colonna sonora scarna ed evocativa, e sul gusto per l’inquadratura, sempre rivolta a mostrare il minimo indispensabile. Ciò che colpisce degli horror orientali, è la considerazione di fondo, seppure trattata in modo marginale, che per ogni peccato c’è una forma di espiazione. La vendetta, tema affrontato anche in opere di autori lontani dall’horror (come Park Chan-Wook ad esempio), diviene una forma di giustizia non più spregevole, ma da considerarsi quasi necessaria. E un altro aspetto che ricorre spesso nell’immaginario di autori come Pang Chun e Pang (The Eye), è quella sorta di velata sacralità che ricopre le figure inquietanti dei loro film. Ciò che colpisce è la motivazione che spinge i morti a ritornare, cioè il dolore e la sofferenza patiti in vita, che rendono impossibile il loro riposo eterno. Le vittime delle visioni si muovono quindi alla ricerca di orribili verità celate dall’indifferenza (dei vivi).
In conclusione possiamo tranquillamente affermare che Shutter è una macchina i cui ingranaggi funzionano a perfezione. Il film, datato 2004, esce solo ora in Italia come riempitivo, ma il livello tecnico della pellicola è di gran lunga superiore a tutti gli horror che hanno fatto capolino nelle sale durante l’ultima stagione cinematografica. Il lavoro dei due registi tailandesi, al lungometraggio d’esordio, è un concentrato di tensione da cui possiamo evincere che la tecnica del ‘vedo-non vedo’ risulta la più affascinante, oltre che funzionale. Per queste ragioni e per l’inevitabile successo riscosso tra gli appassionati (e non) del genere, tra due anni assisteremo ad un repentino remake targato USA, come era già successo per Ringu e per Ju-on. Staremo a vedere.

(Id.); Regia e soggetto: Banjong Pisanthanakun, Parkpoom Wongpoom; sceneggiatura: Banjong Pisanthanakun, Parkpoom Wongpoom, Sopon Sukdapisit; fotografia: Niramon Ross; montaggio: Manop Boonvipat, Lee Chatametikool; musica: Chartchai Pongprapapan; interpreti: Ananda Everingham (Tun), Natthaweeranuch Thongmee (Jane), Achita Wuthinounsurasit (Natre); produzione: Yodphet Sudsawad, Phenomena Motion Pictures, GMM Pictures; distribuzione: Key Films; origine: Tailandia; durata: 93’; web info: sito ufficiale.

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