Signorina Effe

Torino, Fiat, immigrati. La città di Mimì metallurgico, di Così ridevano, de La seconda volta, de La Meglio Gioventù. La città de L’Italia s’è rotta, di Preferisco il rumore del Mare, de I compagni ed anche, per un paio di felici battute, le migliori di un piccolo film, de Il dolce e L’amaro. La Torino che c’era prima di Ferrario e prima di Marco Ponti. Prima di mezzanotte, cioè, e di Santa Maradona. La Torino della fabbrica e della nebbia, di due lingue lontane che dopo essersi ignorate e combattute hanno cominciato a fondersi in uno slang nuovo, senza tradizione e buffo. Torino, la città simbolo della classe operaia italiana. La Città di un freddo “innaturale” e dell’alienazione spesso non cosciente. La città degli sradicati, dei trapiantati, di quelli che lasciavano secoli di terra e luce e si facevano un pezzettino di Sud sul balcone delle case alveare. Il film di Wilma Labate, Signorina Effe, è uno di quei documenti che intervengono a certificare un momento storico più lontano di quanto il tempo non denunci. Riempie un altro spazio che il cinema non aveva ancora occupato. E ‘una sparata di luce sulla storia politica che tende a svanire. Rientra a pieno titolo nel gruppo dei film utili, necessari ed importanti per il nostro paese. Ci piace associarlo a Guido che sfidò le Br, di Giuseppe Ferrara, per la sincerità e la convinzione con cui entrambi i film gettano energia su due eventi fondamentali per le vicende italiane. Che non sono mai legate esclusivamente ad un Italia che non esiste più e che non ha nessun rapporto con quella e con quello che viviamo oggi. Nessuno dei due film è un capolavoro e Guido che… è in certe parti addirittura rozzo. Ciò non diminuisce il loro valore. Entrambi i documenti posseggono la sufficiente quantità di calore per arrivare ai giovani che non sanno e ai vecchi che possono aver dimenticato. Entrambi si avvalgono della potenza del frammento d’archivio, del filmato originale e reale che rafforza e veridicizza ogni isntante di film. Signorina Effe recupera memoria scomoda, antipatica e dolorosa. E’ un film italiano di date precise e precisi fatti. Dà vita cinematografica allo snodo in questione: è il 1980. La fiat impone il licenziamento di 15.000 operai, (il film puntualizza che sarebbero stati molti di più). Gli stabilimenti vengono immediatamente occupati e dopo trentacinque giorni quarantamila, “famosi” impiegati contro manifestano il loro diritto al lavoro. Quel gesto eclatante rappresenterà una svolta politica. Per la prima volta una protesta organizzata è diretta contro la lotta operaia. E’ un segnale molto forte a due anni dall’omicidio Moro e ad uno da quello del sindacalista genovese Guido Rossa. Su questa vulcanica ed insindacabile forza storica prende forma e si muove il coinvolgente, e caldo, film di Wilma Labate. La regista è bravissima a raccontarci le due facce della cultura operaia italiana: da una parte l’espressione seria e decisa di chi crede nell’identità e nell’onore della classe subalterna. Dall’altra la fetta di proletariato per cui l’unica soluzione vincente è l’abbandono di cotanta disgrazia per il divano caldo e signorile del piano superiore. La Labate (in una storia scritta con Domenico Starnone e Carla Evangelista) fa incrociare e interagire queste due figlie della stessa famiglia. In certo modo della stessa terra. La coscienza e l’incoscienza operaia. Il servo leone e il servo agnello. Da una parte la barba, il ghigno, l’odio, la reazione, (senza l’uso delle armi, del ricatto barbaro e del terrore) dell’operaio più letterario, cinematografico, erorico e lirico. Dall’altro la guancia in assoggettata posizione e la paura. L’elogio del padrone e la sua stima. L’operaio stanco e cieco, felice e contento di avercela fatta a diventare vecchio e padre con una tavola imbandita di ricordi meridionali e tosse. Di questi operai si parla poco perché sono poco strumentalizzabili. Sono le vittime del terremoto e della bomba atomica, carne ammassata che partecipa alla storia in silenzio e passivamente. Il film apre un’altra stanza della casa operaia. Mostra il fratello debole che non ha aiutato quello forte a vincere. E questo merito fa perdonare al film i troppo facili modi con cui i personaggi si incontrano ed impastano le loro vite.
Con un’insignificante dose di pazienza si soprassiede facilmente sulle traiettorie fiction che fanno incrociare improbabilmente i protagonisti nei corridoi della fabbrica o sui balconi delle case popolari. La schematica forma Fiction si riempie di Storia e di grandi interpretazioni. Ottimo, sorprendente, Filippo Timi. Un attore vero che abbandona con imprevedibile agilità le lontananze di Saturno contro e di In memoria di me. Un uomo forte e nobile che nasce insospettabilmente dalla mediocre evanescenza del poliziotto ozpeteckiano e dalla passione sacra di Saverio Costanzo. Bravissimo anche Giorgio Colangeli dopo il grande salto de L’aria Salata. Dignitosa Valeria Solarino e valido, dopo troppi personaggi della stessa dimensione, Fabrizio Gifuni. Promossi anche Fausto Paravidino e Sabrina Impacciatore. Tutti uniti nella fiducia verso un bel film italiano, anche se privo di nuove forme e sguardo acuto sul presente. Un film che guarda indietro ma che, intelligentemente, si sofferma su un particolare significativo. Perché da quello zoom si possano costruire considerazioni e coscienze.
Gennaio 2008
Regia: Wilma Labate, Sceneggiatura: Wilma Labate, Domenico Starnone, Carla Evangelista, Montaggio: Francesca Calvelli, Fotografia: Fabio Zamarion, Interpreti: Filippi Timi, Valeria Solarino, Giorgio Colangeli, Fausto Paravidino, Sabrina Impacciatore, Fabrizio Gifuni, Produzione: Bianca film e Rai cinema, Distribuzione: 01distribution, origine: Italia 2007
