Sing Street

È cominciata un anno fa a Sundance la marcia trionfale di Sing Street, il settimo film del regista quaranticinquenne dublinese John Carney, noto in Italia soprattutto per l’acclamato e pauperistico Once, uscito dieci anni fa e per il già più tradizionale (e in parte deludente) Tutto può cambiare (in inglese Begin Again con Keira Nightley e Mark Ruffalo) risalente al 2013. Una marcia trionfale culminata, dopo vari passaggi ai festival internazionali (fra cui Roma) nella nomination ai Golden Globe come miglior film nella categoria “Musical or Comedy”, dove però se la vedrà col pompatissimo La La Land, oltreché con 20th Century Women, con Florence e con Deadpool. Ma fra i produttori (e distributori) di Sing Street ci sono anche i potentissimi fratelli Weinstein e quindi mai dire mai.
Il film è un azzeccatissimo mix di alcuni generi o sottogeneri: è un classico coming of age movie, è un film musicale, a sua volta capace di interpolare l’autentico soundtrack di un’epoca al contempo documentando il disorientamento stilistico di sapore postmoderno della metà degli anni ’80: (dai Duran Duran a Joe Jackson, dai Cure agli Spandau Ballet) con una serie di gradevolissimi pezzi composti per l’occasione dal regista stesso con la collaborazione di Gary Clark della band scozzese Danny Wilson; e, non solo attraverso la musica, Sing Street è un film storico che cerca di restituire il cronotopo Dublino anni ’80, e la sua atmosfera pesantemente intrisa di cattolicesimo ipocrita e oppressivo dove, giusto per fare un esempio che riguarda da vicino la famiglia del protagonista, non è ancora possibile divorziare e i preti che gestiscono larga parte degli istituti scolastici possono permettersi comportamenti ambigui e violenti, rigorosamente impuniti.
Tutto nasce per scherzo: per fare colpo su Raphina, una bella e misteriosa ragazza che passa intere ore piantata come un lampione dall’altra parte della strada, giusto per farsi notare, il protagonista Conor (interpretato dal bravissimo adesso diciassettenne Ferdia Walsh-Peelo, musicista e proveniente da una famiglia di musicisti) le inventa di far parte di una band, che a questo punto si tratta di metter su davvero, modello The Commitments. Gli inizi non promettono granché, sembra proprio una band di ragazzini emarginati, piccoli dilettanti sfigati, quella che a poco a poco viene costruita, eppure insieme all’idea cresce anche la consapevolezza di Conor, autore dei testi, con l’ausilio dell’altra mente pensante della band, Eamon, polistrumentista autore delle musiche. Anche se poi la vera eminenza grigia del gruppo è il fratello maggiore di Conor, Brendan, interpretato dall’ottimo Jack Reynor, che aiuta il piccolo ad acquisire una identità musicale e un gusto, tramite ascolti mirati di LP tratti dalla sua ricca discoteca (che diventano musica diegetica nel film) e che, per converso, proietta generosamente su di lui tutte le frustrazioni di un’adolescenza e di una giovinezza sostanzialmente fallite, sostenendolo fino in fondo, fino al finale vistosamente utopico con cui il film si conclude, verso l’infinito e oltre.
La fotografia anticata, l’asfissiante arredamento d’interni, gli scorci in esterno con una luce tersa e radente, la sarabanda dei costumi che testimonia le varie mode cui la band, alla costante ricerca di sé, intende di volta in volta richiamarsi – tutto o quasi tutto funziona bene in questo film. Le parti forse meno riuscite e un po’ più ordinarie sono quelle che riguardano le liti dei genitori che dovrebbero condurre all’agognato ma appunto impossibile divorzio, che dovrebbero accentuare ancor di più la funzione salvifica della musica per Conor, accerchiato non solo dalle ripetute vessazioni scolastiche oltreché da un senso di inadeguatezza tipico dell’età, ma anche appunto da una famiglia disfunzionale dalla quale fuggire a gambe levate.
Ma il merito maggiore, giova ribadirlo, è la musica, l’interazione fra musica e sceneggiatura, le canzoni diventano anzi a tutti gli effetti sceneggiatura punteggiando in modo plausibile, nell’evoluzione musicale e nei testi, la maturazione di Conor e dei suoi compagni, in una vicenda che si avverte non priva di echi autobiografici, stante anche la ricorrenza di queste tematiche nell’opera di John Carney che, peraltro, è uno dei veri musicisti della band che reca lo stesso nome del film.
La dedica finale ("For Brothers Everywhere"), che apre i titoli di coda, è un inno alla fratellanza, non a una nobile e astratta fratellanza universale, ma proprio al rapporto fra i fratelli che strappa al film alcuni tra i momenti più teneri e commoventi del film.
(Sing Street); Regia: John Carney sceneggiatura: John Carney; fotografia: Yaron Orbach; montaggio:Andrew Marcus, Julian Ulrichs; interpreti: Ferdia Welsh-Peelo (Conor), Lucy Boynton (Raphina), Jack Reynor (Brendan), Aidan Gillen (il padre di Conor), Maria Doyle Kennedy (la madre di Conor), Mark McKenna (Eamon); produzione: Cosmo Films, Distressed Flms, Film Wave, The Weinstein Company, FilmNation Entertainment origine: Irlanda, Gran Bretagna, USA; durata: 106’
