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Slipstream – Nella mente oscura di H.

Pubblicato il 9 maggio 2008 da Marco Di Cesare


Slipstream – Nella mente oscura di H.

Ha suscitato un certo interesse e, soprattutto, una certa meraviglia questa opera da regista di Sir Anthony Hopkins, dieci anni dopo il suo esordio con August: non tanto per gli esiti artistici – ad esser sinceri – quanto perché mai ci saremmo aspettati un divertissement sperimentale dall’attore teatrale trasferitosi armi e bagagli a Hollywood assieme alla sua pronuncia perfetta.
Il suo Slipstream – Nella mente oscura di H. si pone fin da subito come pura allucinazione, quando narra le vicende - del tutto mentali, a dir la verità - di Felix Bonhoeffer (Anthony Hopkins), mentre si accompagna con la giovane amica Tracy (Lisa Pepper) per Los Angeles: molti incontri con la fauna umana del luogo, mentre la mente vacilla e viaggia, destabilizzata di fronte a flash che confondono passato presente e futuro, realtà e immaginazione, fino all’incontro con un automobilista impazzito che ucciderà a colpi di rivoltella dei perfetti ’everyman’, mancando di poco il trasognato Felix, e gridando che «Abbiamo perso la trama!». Ci immergeremo poi in un tipico diner nel deserto del Nevada, dove verremo messi di fronte a una lunga e apprezzabile scena carica di tensione, da Noir violento; ristorante, però, che scopriremo essere il set di un film sfuggito di mano a un ancora giovane regista. Il vulcanico e fastidioso produttore Harvey (John Turturro) deciderà di richiamare Felix, sceneggiatore dell’opera, per riscrivere il copione dopo la morte del protagonista Ray (Christian Slater), collassato mentalmente e fisicamente a causa del caldo e dello sfinimento successivo al calare del sipario sulla sua scena madre.
Il titolo ’Slipstream’ «significa tutto e non significa nulla», per un film che indaga «sulla natura della realtà e sull’illusione della vita» e che «racconta di un uomo che, trascinato sulla scia (slipstream) di un tempo che si ripiega su se stesso, ricorda il proprio futuro». Alle parole di Hopkins vorremmo aggiungerne altre, tratte da Wikipedia, che riportano come quello stesso termine stia a descrivere anche un indefinibile letterario: ossia quella corrente «che definisce opere letterarie di narrativa fantastica a cavallo dei confini che separano le convenzioni di un genere da quelle di un altro o altri, e che pertanto non si possono agevolmente collocare nei confini di uno solo di essi, si tratti di fantascienza o di fantasy rispetto alla narrativa cosiddetta mainstream (nel senso di "narrativa convenzionale e maggioritaria", priva di elementi fantastici)».
È meglio Essere John Malkovich oppure Anthony H.? Indubbiamente il cinema e le sue macchinazioni all’insegna del Sogno che vuol diventare Realtà sono così fondanti del suo specifico artistico, da contenere esse stesse in nuce quelle questioni che vanno sotto il nome di ’metacinema’: percorso che giunge fino al Lynch di Mulholland Drive e di INLAND EMPIRE. E la ricerca della surrealtà in Hopkins diviene ironico surrealismo sulle smanie da protagonismo degli attori, come sulla loro perdita di identità e sulla spersonalizzazione che sembrerebbe coinvolgere anche il regista e lo sceneggiatore, ruoli che tutti vorrebbero concorrere nell’essere considerati in quanto Autori. E pirandelliani personaggi in cerca di autore (lo sceneggiatore, in questo caso), immersi in un joyciano ’Stream of Consciousness’, il quale ha trovato il suo corrispettivo cinematografico nel Fellini di Otto e mezzo. Slipstream, quindi, non mostra nulla di nuovo sotto il sole, nonostante la sua ricerca di una grammatica ’nuova’ e ’meravigliosa’ per rappresentare il Caos (montaggio veloce, stesse inquadrature viste da due prospettive diverse - come in uno specchio - colori cangianti, attori che ricoprono più di un ruolo): calderone di Cultura e di immagini Pop che irrompono nella mente di Felix/Anthony, lambita da Hitler, Stalin e James Dean, fino a L’invasione degli ultracorpi, vero film feticcio sulla spersonalizzazione e sull’alienazione che più volte viene richiamato, compresa la presenza del suo protagonista, ossia Kevin McCarthy, emblema della vecchia Hollywood che torna a esistere, come un fantasma, come in un film di Lynch.
Il film vive di cesure anche a livello di sceneggiatura: dopo la confusione, però, il disvelarsi del set produce un effetto di liberazione e di catarsi, come a volere ristabilire, almeno momentaneamente, il ’confine’ tra realtà e fantasia. Peccato che troppo pressante si faccia la preoccupazione dell’autore Hopkins nel cercare di concludere e (rin)chiudere la storia narrata, grazie al pernicioso innesto di un ulteriore ultimo atto che riempie ancor più il film di fin troppo esplicative sottolineature sopra le righe, malgrado il ritorno della Follia. Eppure, nonostante ciò, qualcosa rimane: più che altro l’idea, sempre allettante per molti spettatori, di poter rimontare l’opera a proprio piacimento, grazie al Ricordo, e di ri-vedere, quindi, solamente quello che si è scelto di vedere. Ma ciò non è abbastanza. Perché in Slipstream tutto rimane a un livello teorico che appare alquanto superficiale. Ma è anche vero che non tutti possono avere il coraggio di rimestare fino in fondo nella spazzatura della post-modernità: perché non tutti possono avere il coraggio e le capacità – senza fare indebiti paragoni - di David Lynch o di Thomas Pynchon.


CAST & CREDITS

(Slipstream); Regia, soggetto e sceneggiatura: Anthony Hopkins; fotografia: Dante Spinotti; montaggio: Michael R. Miller; musica: Anthony Hopkins; interpreti: Felix Bonhoeffer (Anthony Hopkins), Gina (Stella Arroyave), Lisa Pepper (Tracy/infermiera), Christian Slater (Ray/Matt Dobs/Poliziotto), John Turturro (Harvey Brickman), Kevin McCarthy (Se stesso), Fionnula Flanagan (Bette Lustig), Jeffrey Tambor (Geek/Jeffrey/Dott. Geekman), S. Epatha Merkerson (Bonnie), Camryn Manheim (Barbara), Michael Clarke Duncan (Mort/Phil Anderson/Poliziotto); produzione: Samson Films; distribuzione: Delta Pictures; origine: U.S.A. 2007; durata: 100’; web info: sito ufficiale.


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