Snowpiercer
E’ un futuro distopico quello mostrato in Snowpiercer, in cui ogni dimensione di civiltà si perde nel treno della speranza immaginato da Joon-ho Bong.
In un Pianeta Terra ferito e martoriato dall’azione dell’Uomo, dove la vita è ormai estinta e condannata dalla glaciazione, l’umanità sopravvissuta è rinchiusa tutta nello spazio vitale di un luogo limitato di un treno, che inesorabile è vita e segregazione allo stesso tempo. Il treno che non fa più fermate, il treno costruito per essere perenne come i ghiacci che lo circondano è dunque la fonte della salvezza e la condanna per chi ci vive.
I passeggeri della terza classe, sono gli ‘ultimi’ di una società divisa rigidamente in caste, ultimi come i vagoni in cui vivono, un nuovo universo così severamente separato, e allo stesso tempo completamente impermeabile e chiuso a ogni forma di mutamento sociale e spaziale. Un treno in cui la vita a bordo sembra, fin dal primo momento, non connotata, senza ragioni. I viaggiatori allora attendono le razioni di cibo giornaliere, attendono il passare del tempo nel degrado, e nell’attesa covano il desiderio proibito di essere altri da loro stessi. La rivoluzione diventa la questione dominante, la conquista dei vagoni di testa, simbolo di opulenza e ricchezza, è la ragione del riscatto. E la lotta, come mutamento delle questioni sociali, è espressa con violento vigore nella messa in scena.
L’autore è molto chiaro nel conferire alla staticità sociale e al ciclo ripetitivo e infinito della rappresentazione della vita sul treno un significato netto, simbolo evidente di una società autoritaria soverchiante, che pianifica e manipola per non cambiare. Il desiderio di ciclicità, l’eterno ritorno di una società bloccata sembra essere per l’autore il grande male a cui opporsi. Gli uomini hanno mutato il clima della terra nel tentativo di salvarla dal surriscaldamento, e gli uomini a bordo del treno determinano in maniera autoritaria chi debba vivere e morire, esercitando un effimero controllo in cerca di un vano desiderio di equilibrio, e di stabilità. A questo si contrappone la casualità degli eventi, la risposta inattesa, un ordito che non si manifesta. La rivoluzione è in fin dei conti per l’autore la chiusura di questo ciclo ripetitivo. La libertà nella rottura degli schemi. Pensiero semplice in fondo, se non addirittura banale, ma adeguatamente espresso e sostenuto vigorosamente e visivamente dall’autore, che vuole dare a questo film un forte connotato politico. La violenza esplicita messa in scena, senza essere mai gratuita, è dunque l’elemento più radicale per esprimere la forza e la necessità di tale rottura degli schemi. I mutamenti, sembra indicarci l’autore, possono essere solo drammatici.
(id); Regia: Joon-ho Bong; sceneggiatura: Joon-ho Bong e Kelly Masterson; fotografia: Kyung-Pyo Hong; montaggio: Steve M. Choe; musica: Marco Beltrami; interpreti: Chris Evans (Curtis), Ed Harris (Wilford), Tilda Swinton (Mason), John Hurt (Gilliam); produzione: Moho Films; origine: South Korea, USA, France, 2013; durata: 126’