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SPECIALE PETER BROOK

Pubblicato il 1 maggio 2004 da Carla Di Donato


SPECIALE PETER BROOK

Portano un tratto, una distanza che segna un percorso, da tutti, e che li identifica, il più delle volte come: gli attori di Peter Brook. Questo accade probabilmente per due ordini di motivi, uno, il più semplice, perché Brook, come ogni regista che ha creato un laboratorio dove opera un costante lavoro di ricerca e di studio sull’attore, ha costituito evidentemente, in circa tre decenni, un “suo” ensemble di riferimento; l’altro, più interno al lavoro dell’attore, quindi più intimo e nascosto, si potrebbe chiamare metodo, in realtà è l’individuazione di una tradizione che rinasce, ogni volta inscritta nell’organicità dell’attore che la incarna.
I due spettacoli di Brook a Roma ne sono ottimi esempi, lontani tra loro, eppure omogenei, quanto a direttrice comune. Naturalmente, ognuno degli interpreti tesse la “tela di ragno” del percorso attraverso e durante il proprio “itinerario” d’attore a diversi livelli, scegliendo se procedere in altezza e/o in profondità, e, anche qui, Piccoli e Bènichou ne sono due esempi, anche se ben distinti, sia per peso specifico dei singoli sia per curriculum artistico-professionale.
C’è stata una dichiarazione in conferenza stampa di Michel Piccoli, forse la più unanimemente e autenticamente equivocata dalla platea che si trovava lì a raccoglierla, formata da giornalisti e rappresentanti della stampa, evidentemente, sulla natura del lavoro di Brook con l’attore, su quello che appare come il “paradosso” per l’attore: “Quando si lavora con questo regista ci si dimentica facilmente di essere attori, ma si può nello stesso tempo avere lo stesso orgoglio d’attore di Gassman”. È stata fraintesa come un’intenzione di mascherare i “segreti” del lavoro con un’aura magica di immediatezza intuitiva inaccessibile ai più, insomma, banalmente, l’esternazione del mattatore della scena, completamente superflua, e oscura. In realtà Piccoli durante il suo discorso, in risposta ad una domanda a proposito delle differenze tra attori di cinema e di teatro, ha più volte ricordato Marcello Mastroianni, “un attore che non aveva paura di passare dal primo al secondo”, ma che, ha aggiunto, “non aveva paura neanche di morire”. Frase sibillina? Battuta ad effetto? A mio parere solo il riconoscimento da parte di un attore che incarna una tradizione vivente, quale è Piccoli in scena, ad un attore della stessa specie: dialogano, e si specchiano, volendo, attraverso e nel campo acronico della memoria, intesa nel valore e nel peso specifico che questa ha in teatro. Come anche un tempo extra-cronologico può nutrire il dialogo di Piccoli/Cechov di Ta Main Dans La Mienne con il Piccoli/Gaev de Il Giardino dei Ciliegi di Anton Cechov per la regia di Brook di 13 anni fa, ed essere per lui, e per noi, spettatori, anche, oggi, un dialogo invisibile, una possibile trama di quella tela di ragno che l’attore costruisce nel suo itinerario nel segno della continuità, una direttrice più profonda, nel senso che è collocata più in basso del livello terrestre, della bravura e del successo, che producono, al contrario, la crescita in altezza. E non c’è dubbio che quel sottile, finissimo dialogo, possa aver nutrito anche il lavoro tra l’attore e il regista, gli stessi di 13 anni fa, in un delicatissimo e ricco equilibrio e che questo microcosmo, questa “sintonia degli affetti”, possa far semplicemente “dimenticare” all’attore di “fare” l’attore, rendendolo incredibilmente più leggero, e mettendolo quindi in condizione di “essere”.
Maurice Bènichou, il Krishna del Mahabharata del 1985, qui protagonista di un “frammento”, ha come "rimpicciolito”, ridotto a micro ciò che quasi 20 anni fa è stato il corpus macroscopico dell’opera. E la sua danza sulla scena si compone intorno al gesto base, elegante, sì, e ogni volta preciso, ma soprattutto essenziale, che lo “fa diventare” Krishna, quel lento movimento del braccio a spostare l’ampio scialle color arancio che gli cinge le spalle, o il torace, o l’intero corpo. Ma ogni segmento, ogni sequenza, ne riverbera e anche solo questa danza miniaturizzata è sufficiente a donare un’intensa levità all’intera ora di spettacolo, in quella sobria scarnificazione realizzata dalla mise en espace.
Noti sono i viaggi di ricerca “alle origini del teatro” di Brook, e il desiderio di fare spazio, di trovare il vuoto come dato di partenza: questo comporta dover sottrarre, rinunciare, sacrificare, eliminare, per poter “diventare” leggeri. Ed è la sensazione comune che regalano Piccoli e Parry insieme, ogni volta, due aerei maestri della scena, interpreti maturi, e lievi, intensi, due artisti, non più in senso vag(n)amente celebrativo, ma precisamente come afferma il verso di un poema cinese dell’VIII secolo: “Nell’arte, l’uomo cerca ciò che più lo fa vibrare”.

[maggio 2004]

Le recensioni degli spettacoli

LA MORTE DI KRISHNA
TA MAIN DANS LA MIENNE


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