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Sully

Pubblicato il 1 dicembre 2016 da Anton Giulio Onofri
VOTO:


Sully

Un’annurca e una renetta sono due tipi di mela, che tuttavia non potrebbero essere più diverse per gusto e qualità. Possono piacere entrambe, ma non si può non rilevare la differenza sostanziale che corre tra l’una e l’altra. Dovrebbe essere, questo, uno dei principi fondamentali dell’approccio critico ed estetico a qualsiasi opera dell’ingegno, dall’arte alla letteratura, e naturalmente al cinema: non è sufficiente che due film raccontino eventi o affrontino argomenti simili per sentirsi autorizzati ad accostarli in paragoni peregrini che spesso sono il rifugio per chi non sa esattamente come “guardare” qualcosa che è stato realizzato per essere proiettato e visionato su uno schermo, cioè appunto un film. Nessun critico o studioso d’arte serio e rispettabile si sognerebbe di abbinare le Annunciazioni di Simone Martini e di Lorenzo Lotto solo perché in entrambi è rappresentato lo stesso episodio evangelico; sarebbero tutt’altri, semmai, i motivi di un confronto che terrebbe conto di fattori molto più tecnici (o artistici, visto che “arte” in greco si diceva “teknè”) come l’organizzazione della messa in scena nello spazio della tavola o della tela dipinta, o la qualità del disegno e della pittura, per dirne soltanto un paio. Ora che Sully, il nuovo film di Clint Eastwood, è passato in anteprima nazionale al Festival di Torino e tra poco approderà nelle sale italiane (il prossimo 1 dicembre), inizia a circolare nei discorsi degli addetti ai lavori, ma pure dei semplici appassionati di cinema che hanno già avuto la ventura di vederlo magari scaricato dalla rete, il parallelo con un film diretto da Robert Zemeckis di qualche anno fa, Flight, in cui Denzel Washington interpretava il ruolo di un comandante di aerei di linea alcolizzato, che con un atterraggio di fortuna in aperta campagna riesce a salvare 96 su 102 passeggeri scongiurando lo schianto al suolo dell’aereo da lui pilotato letteralmente capovolgendolo per ristabilirne l’assetto livellato. Ma di quel film, che nella rappresentazione dell’incidente aereo ricorre ad una dose massiccia di efficaci effetti speciali (tutto perfettamente legittimo, beninteso, perché anche questo è senz’altro cinema, e Zemeckis non è certo un pivello qualsiasi) affondando a piene mani nel classico repertorio di reazioni isteriche, parole concitate, montaggio serrato e incalzante, facce stupefatte di chi, da terra, al planaggio dell’aereo pochi metri sopra la sua testa esclama “Fuck!”, e tutto quel che conviene utilizzare in un film pensato per soddisfare un pubblico bisognoso di forti emozioni servite espresse e senza tanti complimenti, di quel film, si diceva, l’aspetto più interessante era senza dubbio la dipendenza etilica del pilota, che riesce ad effettuare l’azzardatissima manovra proprio grazie all’ebbrezza e allo stato di incoscienza che ne deriva: festeggiato come un eroe, subirà comunque un processo, e verrà condannato, in un finale che infatti risulta intenzionalmente scomodo e amaro.

Con Sully ci si ritrova su un altro pianeta. Anzi in un’altra galassia. Anche Eastwood ha scelto di raccontare la storia (stavolta vera) di un comandante di volo che salva il suo aereo, il suo equipaggio e i suoi passeggeri grazie a un’azzardata manovra non autorizzata che lo porterà ad ammarare, il pomeriggio di un gelido inverno newyorchese, sull’Hudson River nel tratto fra Manhattan e il New Jersey. Ma le eventuali somiglianze con il (pur buon) film di Zemeckis terminano qui, ed è un po’ pochino per metterli entrambi a confronto. Il cinema di Eastwood, da sempre, ma in questo recente scorcio del nuovo secolo ancora più radicalmente, è all’opposto della narrazione hollywoodiana che tende a intrattenere spettacolarizzando qualsiasi cosa. Eastwood intrattiene, certo, e adotta con sapienza esemplare tutti i criteri di un racconto cinematografico pensato per inchiodare lo spettatore alla poltrona, e anche stavolta, pur partendo da un evento conosciuto da tutti il cui esito viene subito rivelato all’inizio del film, riesce a tenerti sulle spine per l’intera, contenuta durata (appena 96 minuti) del suo film. Ma invece che trascinare dentro gli eventi lo spettatore incantandolo con arti e artifici, gli va incontro a mani tese, e con voce calda e piana gli ricorda la grandezza e la bellezza dell’UOMO. Non ha bisogno di gesti istrionici, né di gridare o farsi accompagnare da colonne sonore invadenti e tonitruanti: al contrario, evita ogni enfasi, smorza i toni, spegne il chiasso, sfronda i fronzoli, non spara coriandoli né neve finta, e concentra in un unico, teso cordolo narrativo l’entità del dramma di chi, obbligato a compiere la scelta più importante della sua carriera mentre stringe nelle sue mani la cloche di un aereo e la vita di 155 passeggeri, ha solo 35 secondi per liberarsi la mente e lucidamente decidere che cosa fare. Su quest’uomo, il Comandante Chesley Sullenberger (bel colpaccio del Festival di Torino averlo invitato insieme a sua moglie per accompagnare l’anteprima nazionale) e sullo sventato disastro aereo del 15 gennaio 2009, ricordato negli annali di New York come “il miracolo dell’Hudson” Eastwood ha realizzato un film a volume basso, dai toni sussurrati e dimessi, delicato come una fonte sorgiva che levighi la pietra su cui scivola, dal quale si esce tonificati come da un lavacro purificatore. Non usa la spettacolarità per impressionare e scatenare adrenalina, ma solo ed esclusivamente per restituire il senso della immane gravità di un’eventuale tragedia, fortunatamente scampata. Il suo obiettivo è invece posizionato vicino ai volti, proiettato frontalmente dentro gli occhi, a scandagliare un’emotività interiore sollecitata dall’incalzare dei fatti, e rivelare l’intelligenza, l’autocontrollo e l’amor proprio di uomini in grado di dare il meglio di sé in situazioni di emergenza o di crisi; allo scopo di comporre un affresco dedicato al Bene come valore universale, il cui trionfo può verificarsi, almeno al cinema, solo grazie alla collaborazione collettiva della comunità degli uomini, educati, addestrati a perseguirlo con senso del dovere, con l’amore per il proprio mestiere. In Sully nessuno è cattivo: anche la commissione di inchiesta incaricata di stabilire l’eventuale colpevolezza del Comandante Sullenberger per aver agito indipendentemente dalle indicazioni della Torre di Controllo, è composta di gente il cui mestiere consiste nel trovare la Verità, opponendole tutte le obiezioni del caso perché possa sgomberare ogni dubbio e vincere nella sua luminosa pienezza. E’ un’etica, insomma, che circola lungo tutto il cinema recente di Eastwood, qui in maniera particolare, rintuzzata di continuo da dettagli più e meno vistosi, come gli spontanei complimenti all’antieroe Sully da parte del tassista ispanico o la gioviale dolcezza dell’edicolante musulmana dell’aeroporto (alla faccia delle antipatie etniche del neoeletto Presidente USA…), due esempi dell’intera e nutrita galleria di volti che riescono a rubare per sé un cammeo di tenerezza, gentilezza, amabilità: come l’addetto alla Torre di Controllo che perde il contatto con l’aereo e cerca di trattenere il suo turbamento di fronte ai colleghi, o la direttrice dell’albergo che, a “miracolo” avvenuto, abbraccia commossa il Comandante Sully preoccupato di aver esagerato nel pretendere la sua uniforme lavata a secco per la mattina dopo…

La vittoria del Bene è secondo Eastwood la cosa più naturale del mondo: non c’è bisogno di festeggiarla con pompose fanfare. Sully è l’antieroe schivo che mal sopporterebbe di venir portato in trionfo. Non ha ombre o lati oscuri (come ne ha invece il pilota alcolizzato di Flight, eroe imperfetto certamente “attuale”, ma quindi assai meno “epico”). La sua sana costituzione di Uomo Buono comprende ampie dosi di modestia. Sa quali sono i suoi meriti, ma riconosce il valore dei meriti altrui, che tutti insieme costituiscono un corale, imponderabile “fattore umano”, non codificabile negli algoritmi che determinano le reazioni dei simulatori virtuali di volo oppostigli al processo dalla commissione d’inchiesta per dimostrare la sua errata valutazione delle circostanze. Ed ecco che in chiusura Eastwood conferma il primato della realtà sensibile, della variabilità dei sentimenti e dell’importanza di imparare a gestirli durante il continuo corso di addestramento della vita, rispetto alla virtualità che sta mutando, o ha ormai già mutato, la qualità della nostra percezione, e da surrogato qual è ci allontana da noi stessi e dalla verità. Ma lo fa in modo morbido e lieve, senza sermoneggiare, inquadrando i suoi protagonisti leggermente dal basso e in fuga prospettica, come fossero giganteschi e assertivi propilei che stabili, solidi, indistruttibili, trasmettano la confidenza e l’affidabilità che da bambini si è soliti attribuire ai genitori, ai nonni, e da adulti ai grandi saggi dell’antichità.

Ed è di nuovo, come sempre (ma forse stavolta più indiscutibilmente di altre), capolavoro.


(Sully); Regia: Clint Eastwood; sceneggiatura: Todd Komarnicki; fotografia: Tom Stern; montaggio: Blu Murray; musica: Christian Jacob, Tierney Sutton Band; interpreti: Tom Hanks, Laura Linney, Aaron Eckart; produzione: BBC Films, FilmNation Entertainment, Flashlight Films; distribuzione: Warner Bros; origine: USA, 2016; durata: 96’


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