Summer in the City (I): Vor der Morgenröte - Stefan Zweig in Amerika
In questa e nelle recensioni delle prossime settimane parleremo di alcuni film che sono in programmazione a Berlino in questo – per il momento – freddino e piovoso agosto 2016. Si tratterà per lo più di film tedeschi o di film di co-produzione tedesca, ma non solo.
Coprodotto e distribuito dall’importante casa indipendente X-Filme, Vor der Morgenröte – Stefan Zweig in Amerika (Prima dell’aurora – Stefan Zweig in America) è un inusuale e frammentario biopic dedicato a un autore che dagli anni ’20 in avanti e per circa un ventennio fu uno degli autori – ebreo assimilato, di famiglia assai benestante di origine viennese -più prolifici, più letti e più famosi a livello mondiale, ma che adesso non del tutto a ragione è scivolato in secondo piano rispetto ai grandi autori della letteratura austriaca tipo Schnitzler, Roth, Hofmannsthal o Canetti, malgrado la recente riproposizione delle sue opere negli USA, di cui i titoli di coda di Grand Budapest Hotel rappresentano una in fondo sorprendente testimonianza. A cavallo fra gli anni ’30 e gli anni ’40, gli anni in cui si svolge il film, la fama di Zweig era, fra gli scrittori di lingua tedesca, seconda solo a quella di Thomas Mann. Il film ha una struttura a episodi o capitoli, quattro in tutto, cui vengono ad aggiungersi un prologo e un epilogo. L’America, di cui al sottotitolo, è soprattutto l’America del Sud, tre episodi più prologo ed epilogo sono ambientati in Brasile, uno in Argentina, mentre l’episodio centrale si svolge a New York. Non tutti gli episodi hanno la medesima intensità. Quelli brasiliani anche in grazia di una maggiore potenza visiva e dell’allusione a un vistoso ma non troppo esotico elemento etnico e interculturale sono più riusciti; mentre più posticcia risulta la sezione newyorkese, girata in interni e con uno scorcio, dalla finestra dell’appartamento, decisamente poco credibile, cui va aggiunta Barbara Sukowa che interpreta la prima moglie dello scrittore e che sembra uscita pari pari da Hannah Arendt (gli stessi abiti?). Chi conosce la biografia di Zweig, sa benissimo dove il film andrà a finire, ossia il suicidio che lo scrittore e la giovane seconda moglie Lotte compirono nel febbraio 1942, assumendo un overdose di Veronal, nella loro casa di Petropolis, città a meno di cinquanta chilometri da Rio de Janeiro, dove Zweig si era stabilito. In sostanza lo spettatore (informato) è posto nella condizione di chiedersi come questa scelta maturerà – e il film ci mostra fin dall’inizio l’itinerario che condurrà a quel gesto estremo. Fin dal primo macro-episodio che racconta una lunga intervista di Zweig al cospetto della stampa internazionale, in margine al congresso del PEN International, l’associazione degli scrittori, tenutosi a Buenos Aires nel 1936 e, a seguire, il suo ostinato silenzio in occasione del congresso stesso, il linguaggio del corpo tradisce l’estrema sofferenza in cui versa lo scrittore che ha saputo sì, con grande tempismo, trarsi in salvo dai nazisti prima ancora che mettessero piede a Vienna, ma che non intende esporsi con comodi attacchi al regime, dall’alto di una posizione privilegiata, in fondo priva di rischi. La vera resistenza è sempre collegata al rischio, afferma a un certo punto Zweig. Già all’altezza del 1936, quindi ben prima che i nazisti decidessero lo sterminio sistematico degli ebrei la patologia di cui soffre Zweig è la sindrome del sopravvissuto che tante vittime farà durante e dopo la guerra, si pensi a Paul Celan, si pensi a Primo Levi. A ciò si aggiunga il fatto che Zweig, convinto pacifista ed europeista, con il nazismo e con la guerra vede miseramente crollare i più alti valori in cui credeva. Ciò che rende la figura di Zweig particolarmente controversa, soprattutto nella sequenza newyorkese, è altresì la consapevolezza di godere di un enorme capitale simbolico presso consolati e ambasciate tale da poter contribuire a mettere in salvo scrittori meno famosi e meno fortunati. Ma – al contempo – un modesto coraggio, e il bisogno di starsene in disparte, lontano da tutti e fuori dal mondo, a scrivere e basta.
Sarà un caso, ma come i film tedeschi arrivati in Italia in questa stagione – Lo Stato contro Fritz Bauer e Colonia Dignidad – anche questo è un film storico, anche questo è un “heritage film”, forse il genere del cinema tedesco maggiormente esportabile. Il fatto che tutto si svolga fuori dalla Germania fa sì che, quanto meno, si riduca la sensazione di déja vu. Un indiscutibile valore aggiunto del film è Josef Hader, l’attore e cabarettista che interpreta Zweig. In Germania e soprattutto in Austria Hader è famoso perché interpreta il commissario viennese Simon Brenner, il fantastico personaggio creato da Wolf Haas (qualcosa è arrivato anche in Italia), ma in un ruolo così drammatico non lo si era mai visto. La regia, garbata, è di Maria Schrader, che di mestiere è soprattutto attrice. Questo è il suo secondo film, dieci anni dopo il primo.
(Vor der Morgenröte. Stefan Zweig in Amerika). Regia: Maria Schrader; sceneggiatura: Maria Schrader, Jan Schomburg; fotografia: Wolfgang Thaler; montaggio: Hansjörg Weißbrich; interpreti: Josef Hader (Zweig), Barbara Sukowa (Friderike), Aenne Schwarz (Lotte), Matthias Brandt (Feder); produzione:Dor Film, Ideale Audience, X-Filme; origine: Austria, Germania, Francia 2016; durata: 100’