Summer in the City (IV): Heimatland
Fondato in una strada non distante dalla sua sede attuale nel 2005, il “b-ware-Ladenkino” si trova a Friedrichshain, all’angolo fra la Boxahagenerstraße e la Gärtnerstraße. Sulla facciata fa bella mostra di sé la scritta (antifrastica e diciamo così duchampiana) “Diesi st kein Kino” (“Questo non è un cinema”). Il nome può essere letto in due modi: all’inglese “beware” (“attenti a”), cui viene ad aggiungersi l’espressione “Ladenkino” che significa alla lettera “cinema-negozio”, l’equivalente, in fondo, di quello che nel cinema degli esordi si chiamava un nickelodeon. Ma “b-ware”, significherebbe anche, con profondo understatement, “merce di serie B”. Questi tipi cinema a Berlino sono sempre più frequenti, proprio in questi giorni la “Berliner Zeitung” sottolineava quanto siano di moda questi locali alternativi soprattutto fra gli hipster berlinesi. Il “b-ware-Ladenkino” è “appoggiato” a una delle ultime grandi videoteche rimaste a Berlino, con una scelta di 15.000 pezzi e una smaccata predilezione per il cinema di nicchia. Intorno alla videoteca che si snoda per vari cunicoli c’è un ambiente, particolarmente buio, pieno di vecchie poltrone e rossi velluti che sembra la sala d’aspetto di un bordello fin de siècle. Il cinema apre addirittura da mezzogiorno e ha la bellezza di tre salette, una da 85, una da 60 e una da 30 posti. Siamo stati in quella centrale a vedere un cupissimo film svizzero intitolato Heimatland (Patria). Coordinato da Michael Krummemacher e da Jan Gassmann, il film è stato girato da dieci giovani registi e registe, appunto, svizzeri. Si tratta di un classico film distopico: una nuvola minacciosa si forma sul cielo della confederazione creando sempre più sbigottimento e raccapriccio fra i personaggi, una decina in tutto, su cui i registi hanno deciso di appuntare l’attenzione, epitome esemplare di tutto il paese: da una poliziotta attanagliata dai sensi di colpa a un tassista di origine balcanica, da una compagnia di assicurazione a un gruppo di nazionalisti sobillati dal capopopolo di turno. Le distopie sono sempre a rischio eccesso allegorico a e anche in questo caso le cose non vanno diversamente, anche perché – guarda caso – la nube incombe solo e soltanto sul territorio elvetico e si arresta proprio al confine svizzero. Ben presto si capisce dunque che il film è una metafora fin troppo trasparente sull’autarchia presunta, sul neutralismo del popolo svizzero che si vede adesso costretto a riversarsi oltre confine per scampare al disastro, un esodo non molto diverso da quelli che vediamo tutti i giorni nei notiziari. E i neo-profughi - come gli altri - si trovano di fronte alla frontiere chiuse e ai doganieri che implacabili rispediscono questi extracomunitari a casa loro, secondo una dinamica uguale e contraria a quella di cui si raccontava in quello che resta uno dei film svizzeri più noti, quel La barca è piena, film del 1981 di Markus Imhoof, film che venne candidato all’Oscar e che vinse il premio alla regia al festival di Berlino, dove si raccontava dei provvedimenti restrittivi adottati dalla confederazione in piena seconda guerra mondiale per ridurre la presenza di cittadini ebraici, in fuga dalla Germani hitleriana e dai paesi occupati dalle truppe tedesche. Gli svizzeri vengono ora ripagati della stessa moneta. Il film si svolge quasi completamente in una notte, a poche ore dal momento in cui la nube si scatenerà e produrrà se non la fine del mondo, la fine della Svizzera. L’impianto allegorico, l’ambientazione quasi esclusivamente notturna, nonché il continuo passaggio da una figura all’altra finiscono per nuocere al film, certamente volenteroso sul piano politico.
(Heimatland); Regia: Michael Krummemacher, Jan Gassmann et alia,; sceneggiatura: Michael Krummemacher, Jan Gassmann et alia; fotografia: Simon Guy Fässler, Denis Lüthi, Gaetan Varone montaggio: Kaya Inan; interpreti: Luna Arzoni (Alice), Nicolas Bachmann (Silvan), Egon Betschart (Roger), Soumeya Ferro-Luzzi (Nina), produzione:Contrast Film origine: Svizzera 2015; durata: 99’.