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Summer in the City (II): Ferien

Pubblicato il 9 agosto 2016 da Matteo Galli
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Summer in the City (II): Ferien

Parlare di film a Berlino significa inevitabilmente parlare anche delle sale. Ce ne sono 130 in tutta la città; sparse per i diversi quartieri, nella vecchia Berlino Ovest e nella vecchia Berlino est, ce ne sono di sensazionali, nascoste o seminascoste, le sale berlinesi meriterebbero un racconto a parte. Il cinema dove abbiamo visto il film su Stefan Zweig si chiama “Sputnik” e si trova sulla strada che congiunge Kreuzberg a Neukölln (zona ovest, dunque) intitolata al generale Gneisenau, proprio di fronte al bellissimo parco della Hasenheide, dove Friedrich Ludwig Jahn durante l’occupazione napoleonica educava i giovani tedeschi alle attività ginniche nella segreta speranza di sollevare gli istinti patriottici della torpida gioventù prussiana. Lo “Sputnik” è al terzo Hinterhof, ossia al terzo cortile interno, secondo la tipica struttura delle case ottocentesche berlinesi. Arrivati al terzo cortile si deve poi salire, senza ascensore, al quarto piano dove si troverà un foyer che sembra un locale underground e la sala con dei sedili e delle panche di mattone, non il massimo della comodità, ma originali, non c’è che dire.
Il film di cui parleremo oggi lo abbiamo visto in un cinema in cui in tanti anni non ci era mai accaduto di andare, si chiama “Zukunft” (“Futuro”) nel quartiere di Friedrichshain (zona est, dunque), non distante da Ostkreuz, quella che sarebbe la fermata più ad est della circolare urbana di Berlino, un toponimo e una zona al centro di un film che subito dopo la caduta del muro ebbe una certa notorietà (Ostkreuz, appunto, con la regia di Michael Klier, anno 1991). All’epoca quel luogo era simbolo di una no man’s land tutta da ricostruire e, a dire il vero, tuttora il cinema si trova nelle immediate vicinanze di una zona non particolarmente accogliente, una zona semi-industriale, di quelle per intenderci dove ci sono, una dopo l’altra, tutte le concessionarie automobilistiche. Ma poi si arriva in una stradina laterale, e si scopre una piccola oasi, un giardinetto con qualche tavolinetto malandato ma fascinosissimo, e a un certo momento è anche sgusciato via un topolino di campagna; il foyer è ancora più underground e malmesso del precedente, con divanetti logori e numeri dello “Spiegel” che risalgono minimo a un anno fa. Ingresso: 4,50€. E con sette ingressi te ne regalano uno. La sala consta di 3, dicasi tre, file, per un totale di 26 posti. Al cinema eravamo in quattro.
Veniamo al film. Ferien - ossia ferie o più correttamente vacanze (quelle che noi chiamiamo ferie i tedeschi le chiamano “Urlaub”) – è un’opera prima di una regista che risponde al nome di Bernadette Knoller, diplomata alla mitica Filmhochschule di Potsdam-Babelsberg, la gloriosa scuola di cinema della DDR intitolata a Konrad Wolf, ancora oggi una delle principali scuole di cinema della Germania. Non sempre ma quasi sempre i saggi finali, grazie a un capillare sistema di finanziamento regionale e/o televisivo, trovano anche una distribuzione in Germania. In questo caso l’atout in più di cui la regista disponeva è che, malgrado il nome non lo faccia intendere, è una figlia d’arte, è la figlia di Detlev Buck, attore e regista assai noto in Germania (in Italia circolò qualche anno fa, distribuito dalla Teodora Film a fine stagione, il film intitolato Knallhart, per il mercato italiano Tough Enough). Buck, non a caso, interpreta il padre della protagonista, con capelli lunghi e ossigenati, roba da urlo. E già che siamo a fare nomi: il film segna anche il debutto – piuttosto convincente – come attore di una altra grande celebrità tedesca (e non solo), quello dello scrittore e avvocato Ferdinand von Schirach (le cui opere in Italia sono pubblicate da Longanesi). La storia è presto raccontata: ragazza neo-laureata in giurisprudenza in piena sindrome burn-out, viene portata dal padre a cambiare aria. Quando uno è completamente fuso in tedesco si dice che è “reif für die Insel”, ossia “maturo per l’isola”. In questo caso l’isola trascelta da padre Buck, il primo di tutta una serie di personaggi, ciascuno a modo loro, completamente di fuori, è l’isola di Borkum, nel Mare del Nord, che, detto con molta franchezza, farebbe venire la depressione anche a chi non ce l’ha. Qui, da una parte, la ragazza dà pieno sfogo alle sue stranezze, per esempio lasciandosi cogliere da un raptus distruttivo in piena notte ai danni di un’aiuola di fiori, simbolo dell’addomesticamento borghese che a lei, con tutta evidenza, non riesce affatto. Dall’altra, invece, si aggira per l’isola incontrando personaggi di ogni genere e di ogni età, ciascuno a modo suo con una rotella fuori posto: dalla ragazza madre presso la quale va ad abitare, al di lei figlio in piena tempesta ormonale pre-adolescenziale, al depressissimo gestore di un negozio di strane anticaglie (il summenzionato von Schirach) che infatti finirà suicida, a un gruppo di musicisti di strada che forniscono al contempo la musica diegetica del film (una delle cose migliori, gli autori si chiamano Paul Eisenach e Ryan Robinson) ad altri curiosi personaggi che si aggirano in questa sarabanda carnevalesca di umanità che popolano Borkum, isola dei folli o forse piccola U-topia. Il film non disdegna in verità nemmeno alcuni distopici inserti surreali, come quando sul waffel del fidanzato venuto a trovarla (e poi rapidamente rispedito via) plana un grasso piccione morto e come quando sulla spiaggia dell’isola si arena niente meno che una balena, promessa forse di un qualche futuro migliore, come sembrerebbe indicare, il non disperato finale, quando tutti i personaggi vanno in pellegrinaggio alla carcassa. Il film è fortemente frammentario, episodico, vorrebbe, tutto sommato, far ridere o almeno sorridere, ma ci riesce in pochi casi. Questa modalità rende complicata anche un’analisi psico-sociologica del personaggio, interpretato da Britta Hammelstein, attrice trentacinquenne che, forse non solo per questo, risulta un po’ fuori ruolo. Certo, la famiglia che si ritrova non l’ha aiutata: a parte il padre di cui si è già detto, anche la madre pare decisamente fredda e anaffettiva e il suo burn-out parrebbe anche un grande no detto alla società che la vorrebbe attiva e performante. Diciamo che come film di esordio, a parte qualche spunto, non si tratta di niente di memorabile: la sceneggiatura zoppica, la fotografia gioca su effetti lattiginosi e un po’ sfuocati che Borkum offre a bizzeffe, la regia non è particolarmente originale. Gli attori, questo sì, la regista li sa dirigere. Che forse è un punto dal quale partire.


(Ferien). Regia: Bernadette Knoller; sceneggiatura: Bernadette Knoller, Paula Cvjetkovic; fotografia: Anja Läufer; montaggio: Jana Dugnus; interpreti: Britta Hammelstein (Vivi Baumann), Detlev Buck (il padre), Inga Busch (Biene), Jerome Hirthammer (Eric), Ferdinand von Schirach (Otto); produzione:Blikfilm; Filmuniversität Konrad Wolf origine: Germania 2016; durata: 88’


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